Giorgio Napolitano è come se guardasse alla situazione da lontano, o forse sarebbe meglio dire dall’alto. Dall’alto dei suoi 88 anni, dei sessant’anni di vita politica, da quella distanza che ha chi non cerca altri incarichi, altre prospettive, ma essendo già in un tempo supplementare gioca il pallone nel modo più diretto e efficace possibile.
Dal suo punto di vista si vede con chiarezza, e lo ha sempre detto senza giri di parole, il fallimento delle ultime legislature.
I l suo cruccio più grosso è il modo in cui il Parlamento e i partiti hanno sprecato l’occasione del periodo Monti per riformare la politica e la sua più grossa paura è che l’errore si ripeta, nell’illusione che buttando via tutto e riaprendo una stagione di campagna elettorale ci possano poi essere soluzioni radiose e miracolistiche dietro l’angolo.
Eppure, per dare risposte all’antipolitica montante e alla rabbia dei cittadini, una via maestra c’era: riformare la legge elettorale, dimezzare il numero dei parlamentari, rivedere i costi del sistema, abolire le Province. Niente di tutto questo è stato fatto, avendo però illuso gli italiani che questi erano passi irrinunciabili e a portata di mano. E’ la stessa via maestra, quella delle riforme minime e indispensabili, che si dovrebbe percorrere immediatamente.
Invece sei mesi fa, senza aver risolto quei problemi, si è tornati a votare, poi ci sono voluti due mesi per rendersi conto del risultato elettorale – un risultato che non permetteva alla coalizione di sinistra di governare autonomamente – e alla fine sono nate nuove larghe intese, politiche questa volta. Larghe intese che hanno senso di esistere solo se, vista la larghissima base parlamentare, sono capaci di dare risposte forti alla crisi italiana. Se invece devono servire a trovare soluzioni minime ma condivise allora ci avviamo al disastro.
Perché, e questo è ciò che Napolitano ha voluto mettere al centro del suo discorso di ieri, il Paese non è guarito, non è fuori pericolo. Non ci vogliono le agenzie di rating, l’Europa o gli organismi internazionali per certificarlo. Per sapere come stiamo basta uscire di casa; andare ad un mercato e vedere l’attenzione parsimoniosa con cui gli italiani fanno la spesa; osservare quanti anziani raccattano la frutta da sotto i banchi; ascoltare una maestra che racconta quante famiglie non possono permettersi di mandare i bambini in gita o a un semplice spettacolo teatrale; camminare nel centro di una città italiana e contare quanti negozi hanno chiuso; parlare con un qualunque sindaco di un qualunque paesino alle prese con i debiti e con una macchina comunale che non ce la fa più.
Se si chiede poi ad una famiglia qual è la priorità, ormai la risposta è sempre soltanto una: lavoro e un futuro per i figli.
Napolitano guarda alla situazione e vede uno Stato che ha cominciato finalmente a pagare i debiti che aveva con le imprese, che sta cercando di varare sostegni all’occupazione giovanile, che sta provando a non soffocare i consumi con l’aumento dell’Iva e ad aiutare le famiglie più in difficoltà togliendo l’Imu. E’ convinto che di questo ci si debba occupare, che non sia possibile smontare tutto un’altra volta, alzare ancora bandiera bianca in nome di egoismi e calcoli personali. Non si può buttare via un’altra legislatura e tornare a votare con questa legge elettorale e senza aver messo mano a nulla.
C’è bisogno di più impegno, di più lavoro, non di più distinguo e passi indietro. Il Capo dello Stato ha parlato con chiarezza dei tre temi che hanno impegnato il dibattito politico e hanno occupato le prime pagine dei giornali in queste ultime settimane, tre problemi che chiamano in causa la giustizia e il rapporto tra la politica e la legge (l’attesa sentenza della Cassazione su Berlusconi), i diritti civili e il rispetto degli altri (gli insulti di Calderoli al ministro Kyenge) e i diritti umani (l’espulsione della mamma kazaka con la sua bambina). Non ha fatto sconti su nessuno di questi, chiarendo che le vicende di Berlusconi non devono interferire con la vita del governo e che ci si difende all’interno del processo e prendendo posizione sugli insulti razzisti e sulla violazione dei diritti nell’«inaudita» storia kazaka.
Ma quello che sembra dirci è che tutto questo non può farci perdere di vista il declino del Paese, per questo si è esposto notevolmente nel caldeggiare la continuazione dell’esperienza di governo Letta e di non tentare avventurismi pericolosi. La responsabilità adesso è tutta di Letta e soci e dei tre partiti che sostengono questo governo: devono essere capaci di dare risposte efficaci in tempi brevi, senza sfinirci con giochini tattici e rinvii snervanti. Se ancora una volta prevarrà la tentazione di alzare bandiera bianca, di chiudere la legislatura e di ricorrere alle urne come scorciatoia per ripulirsi dai fallimenti, sappiano solo che nessuno è più disposto a credere che in una nuova stagione diventeranno improvvisamente capaci e virtuosi.
La Stampa 19.07.13