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“Modernizzazione non sempre fa rima con educazione”, di Benedetto Vertecchi

Quella a cui stiamo assistendo nella scuola è una sorta di modernizzazione forzosa. Di fronte alla constatazione della gravità della crisi si tenta di correre ai ripari, intervenendo su aspetti nei quali si manifesta un disagio più acuto. E lo si fa cercando di riversare sul funzionamento ordinario del sistema elementi di razionalità desunti in parte da procedure ricognitive messe a punto da organizzazioni internazionali, in parte tentando di riversare sulla gestione delle scuole e sulle pratiche di insegnamento la sapienza reificata nelle risorse che lo sviluppo della tecnologia ha reso disponibili. Se le procedure ricognitive danno l’impressione di offrire gli elementi necessari a interpretare lo stato del sistema educativo, le nuove risorse dovrebbero consentire sia di migliorare la gestione delle scuole, sia di introdurre pratiche d’insegnamento più adeguate. Il fatto è che la modernizzazione alla quale stiamo assistendo risponde a logiche interpretative che con l’educazione hanno poco o nulla da spartire. Di per sé, infatti, i dati ottenuti tramite procedure ricognitive possono far emergere aspetti critici dell’attività delle scuole, ma non indicano in che modo le difficoltà emerse abbiano avuto origine o possano essere superate. I dati sull’educazione scolastica sono, infatti, posti in relazione a variabili che costituiscono riferimenti prossimi, sul piano spaziale (per esempio, i dati del Nord sono migliori di quelli del Sud) e su quello temporale (ovvero in che modo questo o quel provvedimento normativo abbia modificato il quadro preesistente). Qualcosa di non troppo diverso si può dire dell’introduzione di nuove risorse, dalle quali si attendono ricadute valutabili in un contesto semplificato, che non tiene conto della complessità degli stimoli che raggiungono gli allievi. In breve, ci troviamo di fronte a una cultura educativa scadente, che non costituisce il punto di approdo di una riflessione autonoma, ma si limita a proporre un calco di modi di argomentare affermati in altri settori della vita sociale, in particolare da quelli produttivi. C’è bisogno di ricostituire condizioni positive per lo sviluppo del sistema educativo e, in primo luogo, di elaborare un disegno interpretativo per il tempo, verso il passato e verso il futuro. Le comparazioni devono cogliere tendenze dalle quali derivino cambiamenti significativi nei profili culturali delle popolazioni. Per esempio, è comune oggi sentir lamentare la regressione in atto nel livello delle competenze simboliche della popolazione adulta. In altre parole, popolazioni che hanno fruito di periodi anche consistenti di educazione scolastica si dimostrano progressivamente meno capaci di utilizzare il linguaggio alfabetico per comunicare. In una logica di breve periodo, questo fenomeno è inspiegabile, o se ne danno spiegazioni banali, come la cattiva qualità dell’istruzione fruita. Meglio sarebbe chiedersi per quali ragioni nel corso degli ultimi secoli sia stata avvertita la necessità di sostituire a una generale condizione di analfabetismo la capacità diffusa di leggere e scrivere (e, possiamo anche aggiungere, di far di conto). Troveremmo che all’origine di una trasformazione che ha segnato in modo determinante la storia sociale europea ci sono stati, a seconda dei casi, una spinta religiosa (nei Paesi riformati, per consentire al popolo cristiano di leggere le Scritture), o una sociale, collegabile alle innovazioni che si sono registrate nell’amministrazione degli Stati, nelle attività economiche, nell’organizzazione della vita quotidiana. La spinta religiosa ha preceduto di due o tre secoli l’altro fattore dinamico di cambiamento culturale. Ebbene, la comparazione delle quote di popolazione che stanno subendo la regressione alfabetica mostra che il fenomeno è molto meno grave nel primo gruppo di Paesi, quelli di religione riformata. Dal momento che le condizioni attuali di vita non sono troppo diverse tra i diversi Paesi, potremmo ipotizzare che un’educazione volta a consentire il possesso comune di una cultura non rivolta a soddisfare esigenze di breve periodo ha effetti più duraturi. In altre parole, la categoria dell’utilità nell’educazione non coincide con quella dei bilanci di breve periodo enfatizzati dalla modernizzazione forzosa del sistema scolastico. È singolare l’ostentazione di certezza che accompagna interventi sul funzionamento della scuola che si fondano, nei casi migliori, su suggestioni analogiche, ma non sono sostenuti da alcuna evidenza di ricerca. Se le procedure ricognitive fossero utilizzate per cercare di capire la complessità dei fenomeni educativi, potrebbero compararsi i dati che si riferiscono a sistemi scolastici variamente organizzati e diversi dal punto di vista delle scelte operative. Si potrebbe giungere alla conclusione che i simulacri della modernizzazione forzosa non sono quelli più comuni nelle condizioni in cui si ottengono migliori risultati. Assai più rilevante è la definizione dei profili culturali, la finalizzazione dei processi nel lungo periodo, la condivisione degli intenti da parte delle popolazioni. Di fronte alla difficoltà di conseguire esiti desiderati, ci si dovrebbe chiedere non solo se le pratiche messe in atto erano le più opportune, ma anche se i messaggi sociali capaci di orientare gli atteggiamenti e sostenere l’apprendimento non siano stati negativi. Sono tante le domande che occorre porsi per intraprendere un cammino di sviluppo per l’educazione: quel che conta è non credere che sia facile trovare le risposte.

L’Unità 15.07.13