Nell’Europa dei 27, l’Italia è terza per quanto riguarda la quota dei Neet, i giovani che non lavorano, non studiano e non sono impegnati in percorsi formativi. Un primato negativo che ci vede preceduti solo da Bulgaria e Grecia. Un Paese, il nostro, a fondo scala anche per quanto riguarda la classifica sull’istruzione universitaria, nel gruppo di testa per l’abbandono scolastico e qui« ultimi in merito alle competenze matematiche dei nostri studenti. Insomma, in un’Europa a due velocità, l’Italia partecipa nel gruppo degli inseguitori, con poche risorse da mettere in pista. Proprio per recuperare questo gap la Strategia di Lisbona aveva posto, tra i cinque obiettivi da raggiungere entro il 2010, la riduzione al 10 per cento della quota di giovani che lasciano la scuola senza un adeguato titolo di studio. La Strategia Europa 2020 ha, invece, posto il tetto di almeno il 40 per cento di giovani che ottiene un titolo di studio universitario o equivalente, da raggiungere entro il prossimo decennio. L’Italia ha fallito il primo obiettivo ed è assai lontana dal secondo.
LA SPESA PUBBLICA La debole competitività dei nostri giovani rispetto ai coetanei europei non stupisce perché l’Italia è anche nella parte bassa della classifica per quanto riguarda la spesa pubblica per l’istruzione e la formazione, ben sotto la media europea. La Danimarca, ad esempio, investe una quota pari a1l’8,1% del Pil, rispetto al 4,5% dell’Italia. Eppure la spesa in istruzione è un indicatore chiave per valutare le policy attuate in materia di crescita e valorizzazione del capitale umano. Peggio di noi, tra i grandi d’Europa, c’è la Germania, che, però, compensa abbondantemente con gli investimenti nel sociale e percorsi formativi eccezionalmente performanti. Nonostante tutto, i talenti nostrani continuano a essere esportati in tutto il mondo. I dati Oecd fissano in 300 mila gli italiani di cultura elevata che hanno lasciato il Paese ottenendo successo all’estero. Ma resta sempre e comunque una contabilità negativa. Il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, ha stimato in circa cinque miliardi di euro il prezzo che l’Italia paga per la diaspora dei migliori e dei più competitivi, che lasciano un Paese che non sa trattenerli. Rispetto al resto d’Europa, l’Italia si presenta con un sistema di formazione e accesso al mondo del lavoro che predispone al fallimento un gran numero di giovani. La competizione per il successo si risolve in un piccolo numero di vincitori e in una grande massa di esclusi. E svela un problema centrale: dopo aver creato un’etica del lavoro e dopo avere sottomesso ogni ambito a quello economico, i giovani si trovano di fronte alla prospettiva di una società senza lavoro, dove prevale la tendenza a spostare sempre più avanti la soglia dell’indipendenza economica. Una dilatazione forzata che prolunga in modo talvolta paradossale il tempo della giovinezza, fino a far sfumare i limiti di ciò che è chiamata «post-adolescenza’>. Il risultato è una massa di «quasi-adulti», bloccati nel passaggio tra il non-più e il non-ancora. I giovani non hanno scelto di non crescere, ma vi sono costretti perché privati di ogni autonomia e autodeterminazione. I percorsi scolastici universitari tendono ad allungarsi a dismisura, si abbandona la casa dei genitori sempre più tardi. I tassi di occupazione si sono abbassati ed è aumentata l’età del primo lavoro stabile. I mondi giovanili sono descritti dagli adulti con nomi diversi (generazione invisibile, generazione x, generazione in ecstasy), ma tutti concordano nell’indicare la mancanza di un’identità precisa e determinata. I giovani di oggi sono più poveri, dipendenti dalle famiglie, smarriti in un’Italia anziana, dove sono soggetti marginali più che protagonisti. La loro esclusione sociale assume forme diverse: dal reddito, dal mercato del lavoro, dalla prestazione dei servizi e dalle relazioni sociali, sul versante dell’economia come su quello dei diritti e della solidarietà. Lo squilibrio generazionale rende la società più iniqua e meno dinamica. Il futuro ha sempre rappresentato una promessa, mentre oggi si è trasformato in una minaccia. I giovani stanno diventando una risorsa scarsa, eppure il loro contributo è indispensabile per rilanciare lo sviluppo del Paese. La loro passività li rende meno capaci di diventare protagonisti del cambiamento. Una loro riscossa è urgente, ma ciò che gli manca è la speranza di successo. Nell’esclusione i giovani diventano apatici, vivono la loro situazione come un destino individuale e non collettivo, al quale è possibile sfuggire solo facendo fede nella buona sorte individuale.
LA SCOMMESSA DELLA UE In quest’ambito, l’Europa si sta muovendo con determinazione. Lo scorso 22 aprile la Commissione Europea ha approvato lo Youth Guarantee, ovvero la raccomandazione che detta le linee guida per risolvere le problematiche occupazionali che affliggono i giovani in tutta Europa. La Commissione ha fatto appello ai singoli Stati membri affinché s’impegnino a garantire, a tutti i cittadini sotto i 25 anni di età, un’offerta qualitativamente valida di lavoro, il proseguimento degli studi o l’accesso a un percorso formativo entro quattro mesi dall’inizio della disoccupazione o dall’interruzione del percorso di studi. Un’Europa consapevole che ha deciso di muoversi verso i giovani per recuperare quella che rappresenta la principale risorsa per il futuro. La risposta dell’Italia non deve farsi attendere se vuole iscriversi nel gruppo dei Paesi competitivi. E la chiave strategica da utilizzare è quella della formazione. Se guardiamo agli Stati caratterizzati dai più bassi tassi di disoccupazione giovanile, questi appaiono anche come quelli con i sistemi d’istruzione e formazione più strutturati, attrattivi e meglio finanziati. Un migliore accesso all’istruzione e alla formazione di qualità rappresenta lo strumento essenziale per migliorare la qualità della vita e promuovere la coesione sociale. La sfida che abbiamo davanti è di altissimo livello e richiede un notevole sforzo. A tal fine, è fondamentale intraprendere fin da subito tutte le azioni possibili per l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro e per l’attuazione di strategie di sensibilizzazione delle problematiche che li affliggono. Non più una società di giovani a perdere ma di opportunità e progetti di sviluppo per evitare il rischio povertà ed esclusione sociale di quel popolo che rappresenta il bacino a cui attingeremo il nostro futuro
Carlo Buttaroni – Presidente Tecnè
L’Unità 15.03.13