Adesso più che mai l’abolizione del porcellum costituisce un’urgenza democratica. Un dovere costituzionale che un governo che si proclama di necessità per il bene del Paese deve avvertire come priorità assoluta. E che il Presidente della Repubblica dovrebbe cercare di imporre con ogni mezzo al vertice dell’agenda nazionale, perché un paese senza una praticabile legge elettorale è privo di effettiva agibilità democratica. Una regola legittima e riconosciuta dai cittadini non svolge la sua funzione solo in caso di elezioni, ma agisce ogni giorno come monito ed opportunit à
per tutti gli attori in campo. È la precondizione esistenziale di una democrazia: vitale come è per un corpo l’aria che si respira. Altrimenti è come un fiume rimasto senza fonte. Smette di scorrere, ristagna, imputridisce. Diventa pantano, buono solo per tafani, alligatori e, appunto, caimani.
Se questo è vero sempre, figuriamoci in questo desolante passaggio italiano dove un atto dovuto del vertice della giurisdizione ha scatenato una crisi politica e una ridda di ultimatum al governo. Ma ci troviamo a dover subire tutto perché tanto “finché c’è il porcellum…”. Così diventano possibili i più disparati ricatti che non sai se definire eversione o disperato folklore, ma anche la paralisi e i veti incrociati trovano il terreno più fertile. Tocchiamo così con mano che la riforma elettorale è la precondizione per la stessa ipotesi di una qualche efficacia dell’azione della legislatura: dal versante economico a quello delle vagheggiate riforme istituzionali si può coltivare un lumicino di speranza di un sussulto virtuoso delle larghe intese, solo se i partiti avvertono come un monito sempre possibile il ritorno all’esame dei cittadini. Se invece resta l’impedimento del porcellum è come pagare una tassa da paralisi decisionale ogni minuto che passa.
Ecco perché un governo coerente con quel che dice, dovrebbe oggi mettere la legge elettorale davanti a tutto. Lo si è voluto politico e non tecnico proprio per accelerare le mediazioni anche su questo fronte dove gruppi parlamentari e partiti sono fisiologicamente bloccati dal proprio calcolo particolare, come avviene del resto per la legge sul finanziamento. Scriva allora il governo una norma elettorale per collegi uninominali (come chiedono Pd e M5S) con un secondo turno nazionale per l’attribuzione del premio di maggioranza (come è più congeniale al Pdl), riservando una quota proporzionale come diritto di tribuna per le più piccole minoranze. Una norma semplice idonea a risolvere insieme gran parte dei problemi istituzionali e non sbilanciata a favore di nessuno. Un sistema che andrebbe bene persino ove dovesse passare il presidenzialismo.
La scriva il governo e la porti di urgenza alle camere; chi si oppone se ne assume la responsabilità e ogni relativa conseguenza. Se invece come è doveroso la norma elettorale passa non c’è nessun automatismo che porti solo per questo al voto anticipato. Anzi il consiglio d’Europa raccomanda che le riforme elettorali siano sganciate e il più possibile lontane dall’appuntamento con le urne. Ciò che soltanto cambierebbe è che il governo resterebbe in piedi sino a quando ha benzina nel motore ed è davvero utile per il paese.
Per questo Letta deve farlo, se è vero che non vuole tirare a campare. E lo dovrebbe pretendere il Pd se non vuole confermare nei suoi elettori l’amara sensazione che l’intesa con il Pdl stia cambiando natura; da coabitazione provvisoria necessaria per il paese, a sodalizio politico per i più retrivi interessi di bottega.
La Repubblica 12.07.13