Un primo ammonimento da parte del questore, poi la querela, infine la custodia cautelare in carcere per i casi più gravi. Sono questi i passaggi che possono portare all’allontanamento dello stalker violento dalla sua preda. Anche se non sempre basta, come nel caso di Rosi Bonanno, 26 anni, uccisa di fronte al figlio di 2 anni dall’ex convivente che lei aveva per sei volte denunciato per stalking. Inutilmente.
QUELLO CHE DICE LA LEGGE
L’ammonimento, è una fase preliminare, la persona viene ammonita dal questore con un provvedimento formale: “Non lo fare più altrimenti si va nel penale”. Poi la vittima può decidere per la querela se l’ammonimento non ha effetto e lo stalker continua. Gli atti persecutori infatti sono sempre punibili “a querela” cioè è la vittima che denuncia e allora parte il procedimento. Basta una prima querela per far partire l’azione penale anche se si possono fare delle “integrazioni” se lo stalker nel frattempo continua. Magistrato e polizia giudiziaria quindi intervengono, verificano le circostanze, e accertano i fatti, se la vittima vive una situazione di pericolo, il Pm che indaga può chiedere al Gip la custodia cautelare in carcere, oppure, il divieto di avvicinamento alla vittima e di comunicazione.
LA TEMPESTIVITA’
Il problema spesso è la tempestività. Se non c’è, infatti, flagranza di reato, manca l’arresto che possono decidere polizia o carabinieri che intervengono sul posto. Altrimenti si passa ad accertare prima i fatti. Se lo stalker aveva una relazione affettiva con la vittima, era un ex coniuge o convivente, le pene possono essere più gravi fino al doppio, se ci sono anche minorenni coinvolti.
L’altro punto cruciale è se si tratta di stalking o di maltrattamenti in famiglia (un reato considerato più grave dal codice penale e che prevede di procedere d’ufficio). «Il problema è la tempestività degli interventi, nel momento in cui si tratta di violenza in famiglia o atti persecutori la cosa importante è che ci sia un intervento immediato del questore e soprattutto un intervento immediato dell’autorità giudiziaria. Non bisogna mai sottovalutare perché la tempestività degli interventi salva le donne» commenta Titti Carrano, avvocato civilista dei centri antiviolenza Differenza donna di Roma e presidente della rete Dire. In casi di separazione infatti sono i tribunali civili che possono emettere gli ordini di protezione.
LA FORMAZIONE DI CHI INTERVIENE
Ma la questione arriva prima alle forze di polizia che ai tribunali, per questo un altro punto su cui le associazioni femminili insistono è la formazione: «Coloro che entrano in contatto con la violenza maschile contro le donne devono conoscere e riconoscere immediatamente quella che è la violenza, e quindi servono polizia giudiziaria e tribunali specializzati. Nei grandi tribunali abbiamo sezioni specializzate alla trattazione dei casi di violenza, ma in quelli piccoli no». In molti casi di violenza famigliare e stalking possono essere coinvolti anche minori, «molte volte il fatto che i bambini assistono alla violenza è sottovalutato, ed è un grosso errore» continua Carrano.
Vittoria Doretti, che coordina il codice rosa- task force antiviolenza, lanciata a Grosseto (e che si sta replicando in modo spontaneo, senza input dall’alto in varie procure, questure e pronto soccorso) guarda lontano: «Siamo sulla strada giusta, dobbiamo lavorare congiuntamente, associazioni e istituzioni, in tutte le sue articolazioni, la violenza è un mostro a mille teste. Dobbiamo guardare all’obiettivo anche se sembra lontano: affinché omicidi come quello di Palermo non accadano più». E al Senato si chiede con una proposta di legge a prima firma di Valeria Fedeli (Pd) che parta una commissione d’indagine per appurare se ci sono delle responsabilità «oggettive» nei casi come quelli di Bonanno.
La Stampa 11.07.13