Immaginiamo dunque questo: che Papa Francesco abbia accettato di firmare un’enciclica scritta quasi per intero da Joseph Ratzinger, perché all’enciclica non era affatto interessato. Quel che lo interessava sopra ogni cosa, che lo convocava, era il viaggio a Lampedusa, sul bordo di quel Mediterraneo dove sono morti, dal 1988, 19mila migranti in fuga dalla povertà, dalle guerre, dalle torture. Altri drammi vedremo, con l’Egitto che sprofonda nel caos e nell’eccidio.
Così grave è il male di questo mondo, così vaste le colpe dei singoli, dei loro Stati, anche della Chiesa, che occuparsi di teologia in modo tradizionale – con precetti, verità assolute – può apparire una distrazione, se non un’incuria. Si riempie un vuoto, per occultarlo. Lo si affolla di parole dottorali, quando altra è l’emergenza: andare in quell’isola, simbolo delle nostre ipocrisie e del nostro disonore. La teologia non fa piangere, e di lacrime c’è soprattutto bisogno, ha detto il Pontefice. Il mondo è uscito dai cardini, 19mila morti sono lo scandalo che nessun politico grida, e il Papa ha trovato la parola che lo mette a nudo e lo definisce: la globalizzazione dell’indifferenza.
È come se il Papa dicesse (ma stiamo immaginando): «Io non scrivo encicliche, per ora. O meglio ne propongo una tutta nuova: facendomi testimone e pastore che non teorizza ma agisce. Io vado dove le lacrime sono sostanza del mondo». Come Achab, il cacciatore della balena bianca in
Moby Dick: di sotto al cappello calcato, cade nell’oceano una sua lacrima. «Tutto il Pacifico non conteneva tante ricchezze che valessero quella misera goccia ». Perché dove c’è teologia non c’è teofania: dove c’è ideologia si parla
di Dio, ma Dio non si manifesta.
Immaginiamo che sia una forma di esilio, questo rifiuto di scrivere encicliche ora. Un «esiliarsi rimanendo lì», spiega Carlo Ossola in un articolo del febbraio 2012 sul
Sole 24 ore: una peregrinatio in stabilitate, secondo i monaci antichi. Una «disoccupazione di spazi» per accogliere il prossimo senza che esso diventi ingombro, disse una volta Roland Barthes. È quello che fece Gesù, che non scriveva trattati ma andava in giro fra la gente «nelle oscure vie della città» (nelle «periferie esistenziali» evocate a marzo dal Papa), come il Cristo raccontato da Dostoevskij che torna in terra e scampa alla prigione del Grande Inquisitore di Siviglia.
Gesù non scolpisce leggi divine sulla pietra, quando assiste al processo dell’adultera: urge fermare un linciaggio. In un primo momento tace, si china a terra, e scrive sulla sabbia un’altra legge, che non si fissa perché sulla sabbia passa il vento. Importante è che la sua parola s’incammini nelle menti, aprendo un vuoto e facendo silenzio tutto intorno. Dicono che non è teologia: in realtà è teologia diversa. Gianfranco Brunelli lo spiega bene, in un articolo sul Regno: esiste uno stile cristiano
(lo stile di Gesù), non meno sofisticato delle dottrine, e il Papa lo fa proprio quando proclama: «Il mondo di oggi ha tanto bisogno di testimoni. Non tanto di maestri, ma di testimoni. Non parlare tanto, ma parlare con tutta la vita» (18 maggio 2013).
La Parola è centrale nel cristianesimo, e nelle religioni del Libro. Non la parola scritta dottamente. Ma quella che dici all’altro: ai sommersi, sofferenti; ai «cari immigrati musulmani», cui il Papa augura un Ramadan ricco di «abbondanti frutti spirituali»; e ai tanti che di fronte al soffrire dicono al massimo poverino! e impassibili passano oltre. Francesco non passa oltre, anzi mette se stesso fra i colpevoli d’indifferenza: «Tanti di noi, mi includo anch’io, siamo disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di custodirci gli uni gli altri. (…) Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non è affare nostro!».
La Chiesa romana è peccatrice, proprio come nella Commedia
di Dante è responsabile del mondo uscito dai cardini, disastrata dal potere temporale. E colpevoli sono i sovrani d’Occidente, che tollerano quelle povertà estreme, e un Mediterraneo funebre, e l’immondo commercio di chi «sfrutta la povertà degli altri, facendone fonte di guadagno».
Arrivando a Lampedusa il Papa ha sorriso ai migranti, ma altrimenti il volto era assorto, il capo chino. Durante la messa non è andato tra la folla, per lo scambio dei saluti. Non sta col capo chino chi edifica dottrine, l’occhio fisso sul crocifisso: dunque più sulla morte di Gesù che sulla sua vita e le sue opere terrene. Tiene il capo chino chi espia, o è rattristato, o semplicemente pensa, e tace come Gesù con l’adultera.
A che pensa il Papa? Nell’omelia lo racconta. Fin da quando ha saputo dei tanti morti in mare, il pensiero della tragedia s’è conficcato «come una spina nel cuore che porta sofferenza». Allora ha sùbito risposto sì all’invito di visitare l’isola. L’enciclica gli era indifferente (immaginiamo, ancora): «Ho sentito che dovevo venire qui oggi a pregare, a compiere un gesto di vicinanza, ma anche a risvegliare le nostre coscienze perché ciò che è accaduto non si ripeta». Due volte ha detto il verbo – «Non si ripeta per favore» – come un mendicante che ha rabbia dentro e la trattiene.
Ha anche pensato alle poche parole che Dio rivolge all’umanità, nella Genesi. Una prima volta all’uomo che appena creato pecca: «Dove sei Adamo? ». Poi al primo fratricida: «Caino, dov’è tuo fratello?». Ne è nata una «catena di sbagli che è una catena di morte». Di qui la terza domanda, del Pontefice: «Chi di noi ha pianto per questo fatto e per fatti come questo?». La conclusione cui giunge non è quella cui siamo abituati: nessun accenno al relativismo, al nichilismo, parole europee dei secoli scorsi. Essenziali sono le lacrime, l’anestesia
del cuore.
«Siamo una società che ha dimenticato l’esperienza
del piangere, del patire-con». Ecco la globalizzazione dell’indifferenza: è tremenda perché «ci ha tolto la capacità di piangere». Perché si nutre di politiche che generano caos, e lo chiamano pace.
Tutto questo possiamo immaginare, senza scostarci troppo dal vero. Dicono che un Papa così è impolitico, perché va nelle periferie esistenziali detestate dai Grandi Inquisitori, e fa politica quando potrebbe installarsi in un’enciclica. L’irritazione è massima. Basti citare la reazione di Cicchitto, araldo di Berlusconi: «Un conto è la predicazione religiosa, un altro è la gestione da parte dello Stato di un fenomeno così difficile quale l’immigrazione irregolare». Cose simili dice il ministro greco dell’Interno (Nikos Dendias, uomo di Samaras), blandendo i nazisti di Alba Dorata.
Il peccato d’indifferenza ha una lunga storia in Europa. Lo scrittore Herman Broch lo chiamò, narrando la Germania pre-hitleriana, crimine dell’indifferenza: più grave ancora del peccato di omissione, perché non perseguibile penalmente (nel primo caso c’è almeno il reato di omissione di soccorso). L’indifferente non è stato sveglio, quando si poteva. «Non è stato attento al mondo in cui viviamo», dice il Papa: «Non abbiamo curato e custodito quello che Dio ha creato per tutti». Chi difende il proprio benessere buttando a mare gli «uomini di troppo» usa il cristianesimo, mal dissimulando il razzismo e facendo quadrato attorno alla triade «Dio, famiglia, patria tribale». Ha perfino, come Cicchitto, l’impudenza di invocare la laicità: che lo Stato governi, e i Papi scrivano encicliche. Disobbediente, imperturbato, il Papa infrange quest’ordine imbalsamato. Non a caso il suo nome è Francesco. Sappiamo che le prediche di Francesco mutarono il mondo.
La Repubblica 10.07.13