Nei primi cinque mesi dell’anno sono fallite in media 35 imprese al giorno, questo significa che dall’alba al tramonto si certifica la fine di un’attività ogni venti minuti. Si spengono le luci delle aziende e quelle dei negozi, questa è l’emergenza dell’Italia, anche se si continua a parlare molto di più di Imu, di Province e di Ruby.
Si parla di deindustrializzazione del Paese, chi è qui fatica e rischia di chiudere, chi può se ne va attratto dalle sirene delle regioni oltreconfine (oggi sono molto più calamitanti la Savoia, la Carinzia, il Canton Ticino o la Slovenia rispetto alla Romania o alla Cina del decennio scorso) e chi è fuori non ci pensa più a venire da noi. La settimana scorsa Confindustria ha lanciato l’allarme sugli investimenti esteri in Italia crollati del 70 per cento nel 2012: sono le multinazionali che non mettono più piede nel nostro Paese scoraggiate dalle troppe incertezze del nostro sistema.
L’idea prevalente, pur di fronte a questi dati, resta però che il lavoro si difende, non che si crea. C’è una sfiducia profonda nell’idea che le cose possano cambiare, che ci possano essere lavori nuovi e diversi, che ci sia bisogno di aggiornarsi e di rimettersi in discussione.
Non c’è dubbio che sia sacrosanto difendere i livelli di qualità e i diritti fondamentali raggiunti sul lavoro, ma quest’ottica ha il limite di chiudersi solo nell’idea della difesa, della trincea, finendo per tutelare soltanto chi è dentro e quei pochi che riescono ad entrare e non mettendo al centro della discussione tutti quelli che sono fuori.
Un anno fa avevamo fatto un viaggio nei fattori penalizzanti dell’economia italiana, individuando gli ostacoli al fare impresa, dalla burocrazia al costo dell’energia, dai ritardi dei pagamenti alla lentezza della giustizia all’alta tassazione, ora ne cominciamo uno sul lavoro che si crea, sulle caratteristiche che devono avere i territori per permettere che germogli l’impresa, sulle sfide delle tecnologie, sulle ricette che la manifattura non può perdere, sulle elasticità che il sistema dovrebbe essere capace di darsi e sulle porte che si possono aprire ai giovani.
I giovani sono quelli che più stanno pagando questa crisi, perché sono vittime non solo della mancanza di lavoro ma anche della chiusura del sistema a difesa dell’esistente. Ho sotto gli occhi un esempio che riguarda i giornali che mi sembra illuminante: le aziende editoriali in stato di crisi – la maggioranza oggi in Italia – che accedono ai contributi per i prepensionamenti non possono assumere nessuno, nemmeno fare contratti a termine (per sostituzione malattia, maternità o ferie) e nemmeno ospitare stagisti delle scuole di giornalismo.
In questo schema ci sono almeno due soggetti tutelati: il giornale, a cui viene data una possibilità per sopravvivere e ripartire, e il giornalista a cui è garantito uno scivolo alla pensione. Un solo soggetto è sconfitto: i giovani giornalisti o gli aspiranti tali, quasi che il problema fossero loro. Non solo gli si dice che per salvare l’esistente è necessario alzare un muro che li tenga lontani ma non gli si da nemmeno la possibilità di fare gli stages: insomma non devono farsi vedere. E pensare a quanto i giornali avrebbero bisogno di energie nuove, di pensieri freschi, di aggiornarsi alla società, di aprirsi ai nativi digitali. La logica, qui e in tutto il mondo del lavoro italiano, andrebbe ribaltata: chi vuole avere contributi in fase di ristrutturazione non deve chiudersi ma gli andrebbe chiesto, al contrario, di investire in tecnologie, giovani e cambiamento.
L’obiezione a questo punto è sempre la stessa: che ci sono aziende che i giovani li sfruttano senza riconoscere nulla o che fanno lavorare gli stagisti come dipendenti a tempo pieno. Ma anche qui la risposta non può essere che i giovani vanno lasciati a casa: la risposta deve essere che vanno perseguiti gli sfruttatori e aiutati tutti gli altri a crescere.
Di fronte alla deindustrializzazione del Paese è fondamentale cambiare passo ma anche cultura, non si può pensare di continuare a leggere la realtà con le lenti del Novecento e a considerare il lavoro e l’impresa come soggetti non interdipendenti. Non si può pensare che il lavoro si crei senza le imprese e che il benessere dell’uno non sia legato a quello dell’altro. Non abbiamo bisogno di nuovi scontri ideologici ma di capire in che modo si può riaccendere il motore, dobbiamo chiederci perché nessuno viene più a investire qui e ripartire da questa domanda. Perché se saremo in grado di avere un sistema di nuovo capace di attrarre gli stranieri allora di sicuro quel sistema sarà un buon posto per fare impresa e per dare lavoro anche agli italiani.
Le prime pagine del giornale di oggi ci raccontano il dramma di chi non ce l’ha fatta, da domani proveremo a raccontarvi come si può provare ad essere un’altra Italia.
La Stampa 08.07.13