Quando un paio di settimane fa il telefono è suonato nella sua piccola impresa edile di Ivrea, Gianluca Actis Perino non avrebbe mai immaginato che dall’altra parte del filo lo stava cercando il ministro dell’Economia. Fabrizio Saccomanni aveva un paio di domande per lui
Perino è amministratore unico della Sicet, un’azienda edile di 15 dipendenti (cinque meno di due anni fa) che dopo molti mesi è riuscita a farsi pagare dalla provincia di Torino 720 mila euro di crediti scaduti per la manutenzione di due licei. Saccomanni aveva letto quel mattino un articolo sulla Stampa in cui l’imprenditore spiegava le sue difficoltà e l’ha fatto cercare. Ma più che congratularsi, chiuso nel suo ufficio di Via XX Settembre a Roma, il ministro voleva capire: quanto è difficile trasferire concretamente una somma dai conti del Tesoro fino a quello di un uomo che, spiega Perino, deve scegliere se comprare un nuovo camion per l’impresa «o dare da mangiare ai figli»?
I dati, di per sé, fanno pensare sia quasi impossibile. È almeno da febbraio che il governo, allora guidato da Mario Monti, promette di pagare almeno 20 miliardi di debiti commerciali arretrati entro quest’anno. Sei mesi più tardi la contabilità esatta dei progressi è disarmante: il 27 giugno scorso il Tesoro ha trasferito alla regione Lazio 924 milioni, con i quali la giunta in teoria dovrebbe iniziare a pagare le imprese creditrici entro 30 giorni; l’altro ieri poi dai conti di Via XX Settembre sono partiti altri 448 milioni di «anticipazione di liquidità » per il Piemonte. «In corso » sono anche dei pagamenti di circa 500 milioni dal Tesoro agli altri ministeri perché questi a loro volta saldino i propri creditori, mentre la Cassa depositi e prestiti ha trasferito 1562 milioni a 1500 comuni che ne hanno fatto richiesta.
In tutto, giunti già a metà del 2013, si tratta di poco più di tre miliardi sui venti da saldare. Ma per ora sono solo bonifici partiti da certi conti dell’amministrazione pubblica verso altri conti di altri rami dell’amministrazione pubblica. Alle imprese, di quei tre miliardi, è arrivata appena una frazione di entità per ora ignota. Lo Stato ritiene di avere circa 90 miliardi di debiti commerciali arretrati (un quadro più preciso si dovrebbe avere solo in settembre), ma non ha la minima idea di quanto sia già stato versato al creditore finale nel settore privato.
La telefonata di Saccomanni a Ivrea, e il suo impegno evidente nel saldare i debiti alle imprese, suggeriscono che alla radice del problema non c’è la riluttanza del governo. Sembra un fenomeno più complesso: una colluttazione dell’amministrazione statale con se stessa per arrivare, prima o poi, all’obiettivo enunciato. Basta dare un’occhiata al calendario degli incontri del Tesoro con le Regioni per capire quanto il processo possa
essere tortuoso. I tecnici del governo hanno incontrato quelli della Calabria, del Molise, della Liguria e della Toscana a maggio per i debiti contratti fuori dal settore sanitario. Ma siamo a luglio e i trasferimenti di denaro fra burocrazie non sono ancora avvenuti. La Calabria e la Toscana non hanno ancora presentato un «piano dei pagamenti», al Molise e alla Liguria manca anche una «norma di copertura». Quasi tutte le altre giunte sembrano essere addirittura ancora più indietro.
Non è chiaro il motivo per cui una Regione debba passare un atto di legge («norma di copertura») semplicemente perché è in ritardo nel saldare i fornitori. Wolfgang Munchau, sul
Financial Times, ha provocatoriamente scritto che legiferare per saldare il dovuto è un gesto da amministrazione insolvente: deve modificare il quadro di legge per fare semplicemente ciò che (altrove) sarebbe normale. Né è chiaro a cosa serva un «piano dei pagamenti», come se il calendario dei giorni di ritardo, nel Mezzogiorno a volte più di mille, non facesse già fede abbastanza. Ma, appunto, forse proprio questo strumento è ciò che manca. In certi momenti Saccomanni deve sentirsi come in una lotta contro i mulini a vento. L’altro giorno persino il presidente Giorgio Napolitano si è spinto a dare al ministro tecnico il suo sostegno esplicito, un gesto inusuale in mezzo alle baruffe fra i partiti e fra i rami della burocrazia pubblica. Perché anche il capo dello Stato senz’altro lo sa: più difficile che pagare 20 miliardi di arretrati in un solo anno, c’è solo pagare venti miliardi nella seconda metà dell’anno che ormai resta.
La Repubblica 05.07.13