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“Ufficio sfoghi”, di Massimo Gramellini

Lo relegheranno a caso di ordinaria follia. Un vigile urbano avanti con gli anni che viene accusato di timbrare il cartellino anche per i colleghi. Il processo, la condanna, la destituzione dall’incarico. E intanto il virus nazionale del vittimismo che gli monta dentro, fino a catalizzarsi intorno a un bersaglio in carne e ossa: la sindaca di un paese del Varesotto, teatro di tutta vicenda. Per trasformarla in tragedia manca l’ultimo requisito: il porto d’armi che consente a quest’uomo di mantenere un arsenale di carabine e fucili a pompa. Giuseppe Pegoraro si presenta in Comune, spara al primo cittadino, ferisce anche il secondo, e quando viene infine messo nelle condizioni di non nuocere, le sue prime parole sono quelle di un giustiziere della notte cresciuto a rancore e telefilm: «Adesso ho regolato i miei conti».

Ordinaria follia. E però quanti Pegoraro, per fortuna senza porto d’armi, solcano ogni giorno le strade del nostro scontento? Quanta rabbia intrisa di mania di persecuzione, alla ricerca spasmodica di un capro espiatorio da sacrificare sull’altare di un regolamento di conti scambiato per giustizia? L’essere umano funziona così da quando frequenta il mondo. A non funzionare più è la comunità che un tempo assorbiva un po’ di questo disagio. Il prete, il medico condotto, il circolo comunista, la famiglia patriarcale. Non facevano miracoli, ma erano camere di decompressione, sfogatoi legalizzati in cui scaricare malumori e risentimenti prima che montassero fino all’impazzimento. Oggi gli sfogatoi sono i social network, ma senza contatto fisico la solitudine fa in fretta a diventare malattia.

La Stampa 03.07.13