Ci sono molte leggende metropolitane che si sono insinuate nella coscienza collettiva, tanto da avere avuto un ruolo non secondario nell’indirizzare il voto referendario.
La prima è quella relativa agli investimenti. «Da quando è gestito con criteri privatistici, il sistema ha inanellato una drastica riduzione degli investimenti», afferma Marco Bersani su questo giornale. Mi spiace contraddirlo, ma è vero il contrario.
Finché gli investimenti idrici sono stati a carico della fiscalità, la spesa annua (attualizzata) è sempre stata compresa tra i 10 e i 20 euro per abitante all’anno (€/ab/anno), con la sola eccezione dei primi anni 80: periodo della prima grande ondata di interventi nella depurazione. È appena il caso di notare che fu proprio in quella fase che il debito pubblico italiano spiccò il volo: è facile spendere soldi che non si hanno, prendendoli a prestito dalle generazioni future.
Non appena il vincolo di bilancio iniziò a stringere, gli investimenti precipitarono. La media dei 90 è di 17 €/ab/anno,con punte al di sotto dei 10 euro. È facile intuire il perché: quando la spesa pubblica diventa una risorsa scarsa da razionare, è forte la tentazione di tagliare le spese che producono benefici a lungo termine. I piani varati in attuazione della riforma prevedevano una media di 37 €/ab/anno,con una forte concentrazione nei primi anni (61 €/ab) per recuperare il tempo perso. Gli investimenti effettivamente realizzati nel primo decennio sono 33 €/ab/anno. La metà di quanto si sarebbe voluto fare, ma pur sempre il doppio di quanto si faceva prima.
Se guardiamo il dato più da vicino, scopriamo che quei 33 € sono la classica «media del pollo». C’è chi non è così lontano dall’obiettivo, e chi non ha investito per nulla. E non sono certo le gestioni «private» (sul cui essere davvero «private» ci sarebbe poi da discutere) quelle che hanno investito meno, anzi.
Se si è investito meno di quanto si sarebbe voluto, è difficile dare la colpa ai gestori (anche perché la tariffa era costruita proprio in modo che il gestore potesse guadagnare solo investendo di più). Semmai, non si è investito dove i piani d’ambito sono stati costruiti preoccupandosi più di contenere gli incrementi tariffari che dell’equilibrio finanziario.
Un’altra leggenda metropolitana vuole che l’introduzione dell’odiata remunerazione del capitale investito abbia fatto lievitare le tariffe, aggiungendo il profitto garantito al costo del servizio. Tolto l’odioso balzello,
l’acqua sarebbe tornata a costare il giusto. C’è una banale verità, che chiunque dovrebbe capire. Se deve essere la tariffa a sostenere gli investimenti (ossia, a generare i flussi di cassa che servono per ripagare i debiti contratti), è perfettamente ovvio che nella tariffa devono trovare posto sia gli ammortamenti che gli oneri finanziari. Sostituire gli oneri finanziari standard (il famoso 7%) con gli interessi effettivamente pagati si può anche fare (è come passare da un mutuo a tasso fisso a uno variabile). Vorrà dire che i profitti, invece che gestori, li faranno le banche.
Il sogno di una gestione dell’acqua che non paga il capitale può avverarsi solo in un modo: tornando a caricarlo sulla fiscalità generale. E infatti, quando si cerca di stanare qualche proposta concreta, è sempre lì che si va a parare: chi si impanca a inventare tortuosi e irrealizzabili castelli di carte degni di Bernie Madoff (come i bond irredimibili), chi invoca deroghe al patto di stabilità (per finanziare gli investimenti con qualche nuova emissione di Btp), chi favoleggia di sostituire gli F35 o la Tav (come se non vi fossero già altre 100 cose che si è promesso di finanziare con quei soldi, quando anche arrivassero, dal taglio delle imposte agli ammortizzatori sociali, da Pompei alla ricerca). Si vada a curiosare un po’ in Olanda, in Svezia, negli Usa, in Germania – dove le gestioni sono pubblicissime, ma non gravano sulla fiscalità. Lì si investono non 30, non 60, ma 90-100 €/ab/ anno. E le tariffe sono dal doppio al triplo delle nostre, per il semplice motivo che qualunque gestore, se si finanzia sul mercato, deve pagare il denaro al prezzo di mercato.
L’Unità 03.07.13