«Perché l’Italia abbandona il proprio patrimonio culturale? Per rispondere dovremmo farci un’altra domanda: a cosa serve il patrimonio culturale? Ho l’impressione che l’Italia non sappia più quale funzione e quale ruolo abbia. I padri costituenti, invece, l’avevano molto chiaro, altrimenti non l’avrebbero messo nei principi fondamentali del Paese. In un’Italia distrutta dalla guerra, in quel momento tragico, loro videro che il patrimonio e il paesaggio sono fondamentali in un progetto di Nazione. Oggi sarebbero considerati dei pazzi».
È una costante il riferimento alla Costituzione nel discorso di Tomaso Montanari, docente di Storia dell’arte moderna all’Università «Federico II» di Napoli. Il suo ultimo libro (Le pietre e il popolo, minimum fax) è un viaggio impietoso nell’Italia che nega il valore civico del patrimonio artistico. Il 5 maggio scorso è stata una sua proposta a portare mille storici dell’arte a L’Aquila per chiedere la «ricostruzione civile» della città martoriata dal terremoto del 2009.
Come possono concorrere, oggi, patrimonio e paesaggio a un progetto di Nazione?
«È tutto scritto nell’articolo 9 della Costituzione. Il patrimonio produce cittadini attraverso la ricerca e la cultura. Nella nostra legge fondamentale il patrimonio non ha funzione economica, non è il petrolio d’Italia».
E come si fa a mantenerlo, visto che perfino la tutela dei nostri siti più importanti, vive una perenne emergenza?
«Dal 2008 a oggi il bilancio del ministero per i Beni culturali si è ridotto a un terzo, circa un miliardo di euro. È un ventiseiesimo della spesa militare. Sarebbe demagogia pretendere la pari dignità tra cultura e armi, ma 26 a uno è un suicidio della nazione. E non vorrei ripetere ancora una volta che l’evasione fiscale in Italia è seconda solo alla Turchia e al Messico. Ma col 2% dell’evaso il patrimonio si manterrebbe perfettamente. Non è che non possiamo, non vogliamo».
Quindi non possiamo neanche aspettarci dalla cultura posti di lavoro qualificati come sarebbe normale?
«Invece sì, dovremmo aspettarceli, perché il patrimonio ha bisogno di infinite professionalità di alto livello. Mentre la gestione parzialmente privata introdotta dalla legge Ronchey ha prodotto generazioni di schiavi del patrimonio, precari, sfruttati, sottopagati».
Cosa si può fare oggi, di fronte alle continue emergenze?
«Primo punto riportare il bilancio dei beni culturali a prima del 2008. Barack Obama ha detto che tagliare sulla cultura in tempo di crisi è come buttare il motore fuori bordo per far ripartire l’aereo. Cominciamo a far ripartire le assunzioni dei giovani archeologi, storici dell’arte e architetti al ministero per i Beni culturali».
Ma qualcuno non potrebbe vedere in questo la solita ricetta dell’aumento della spesa pubblica?
«Il patrimonio è come la scuola, come la salute, dobbiamo decidere se merita la nostra attenzione oppure no. Tutelare il patrimonio vuol dire lavorare per il futuro, non per il passato».
E alzando lo sguardo su una prospettiva un po’ più lunga?
«Ci vuole una nuova alfabetizzazione degli italiani che non sono più in grado di leggere il paesaggio e il patrimonio. Nessuno può desiderare di tutelare ciò che non conosce e quindi non ama. La chiave è nella scuola, e una vera rivoluzione sarebbe abolire la Direzione generale per la valorizzazione al Mibac e sostituirla con una Direzione generale per l’educazione al patrimonio».
Come giudica i primi passi del ministro Massimo Bray?
«Mi sembrano tutti andare nella giusta direzione, ma come ha mostrato la vicenda della circolare che impone una improvvida rotazione triennale dei direttori di museo, diramata all’insaputa del ministro, Bray deve liberarsi da una struttura burocratica palesemente inadeguata».
Il Corriere della Sera 30.06.13