La proposta Pdl di estendere il lavoro di riforma costituzionale anche al titolo sulla magistratura si presenta anzitutto come un atto di ritorsione alle sentenze di condanna contro Berlusconi. Non è chiaro se la minaccia sia partita direttamente dal Capo o dalla mente fervida di qualche fedelissimo. L’esito tuttavia è lo stesso: l’apparente aggiunta costituisce in realtà uno «strappo» inaccettabile. Le riforme sono già così difficili: se il tavolo del confronto diventasse un terreno di scontro, o di esibizione muscolare, o di pressione istituzionale verso altri poteri, allora sarebbe meglio smettere subito e non sprecare fatica inutile. In ogni caso una discussione sull’ordinamento giurisdizionale e, più in generale, sui poteri neutri non può essere affrontata con la dovuta serietà, finché il leader del secondo gruppo parlamentare ha come priorità assoluta salvare se stesso dai processi in corso e costruirsi un percorso di giustizia ad personam. Non si può neppure dimenticare, mentre sta faticosamente iniziando questo ennesimo tentativo di riforma, che il lavoro della Bicamerale presieduta da D’Alema fu prima approvato da tutti e poi venne buttato al macero da Berlusconi perché considerò inaccettabile proprio la parte della riforma che riguardava la giustizia. Stavolta non può valere l’argomento, pur ragionevole, che il potere giudiziario richiede alcuni interventi di revisione costituzionale al pari dei poteri esecutivo e legislativo. Non stiamo in un’accademia. La revisione è plausibile solo laddove le convergenze sono mature, e nessuna modifica viene percepita come una manomissione della Carta del ’48. Qualcuno davvero può pensare che in presenza di un governo con una base parlamentare così fragile, di una crisi economia e sociale così grave, di orientamenti tanto diversi sull’evoluzione del sistema politico italiano, si possa organizzare un ring dove due pugili disputano un combattimento che ha come posta modifiche occasionali e/o strappi alla Costituzione?
Ma anche i firmatari degli emendamenti Pdl sanno bene queste cose: forse il loro solo scopo era esercitare una minaccia politica verso il governo, e magari verso i magistrati che si trovano a giudicare Berlusconi. Il problema del terreno di condivisione tuttavia riguarda l’intero lavoro di revisione. Alcune modifiche alla Costituzione sono necessarie. Il fatto che siano oggi improbabili (visto il conflitto politico) non toglie nulla alla loro assoluta urgenza. Anzi, le modifiche sono necessarie proprio perché dovremo presto tornare al voto e bisogno consentire agli italiani di prendere finalmente una decisione efficace, oltre che consentire al governo pro-tempore di operare con una giusta stabilità, senza prevaricare il Parlamento ma anche senza sottostare ad intollerabili ricatti.
È ora di finirla con questa seconda Repubblica. E anche con uno dei suoi più colossali imbrogli: la stabilità e la forza dei governi non dipendono (solo) dalle leggi elettorali. A diferenza di ciò che è stato predicato per vent’anni, non è la legge elettorale la chiave per avere un governo efficace e per dare maggior potere ai cittadini-elettori. Senza qualche correzione alla Carta, non basterà cancellare il Porcellum per avere ciò che tutti noi speriamo: un sistema trasparente, un Parlamento responsabile, un governo serio, efficiente ma al tempo stesso controllabile. Fare oggi un’opera di manutenzione della Costituzione è la condizione per salvarla, per confermare i suoi principi. Senza riforme invece rischiamo di chiudere la legislatura con rischi elevatissimi: la sfiducia dei cittadini, l’impotenza della politica e le conseguenze sociali della crisi stanno creando una miscela esplosiva, che può minare alle fondamenta l’intero edificio democratico.
Ma la sola riforma realistica – è ora di dirlo – sta dentro il quadro delineato dai Costituenti. Furono loro stessi a suggerire – con il famoso ordine del giorno Perassi – un sistema parlamentare rafforzato.
Non vennero ascoltati e la nostra prima Repubblica acquisì nel tempo i difetti del parlamentarismo deteriore. Invece fu uno dei nostri costituenti, Egidio Tosato, a inventare l’istituto della «sfiducia costruttiva», che poi i tedeschi adottarono e che consentì loro il massimo di stabilità politica in Europa. Le sole riforme realistiche vanno in questa direzione. L’ipotesi semi-presidenziale, che pure raccoglie consensi trasversali, è in realtà impraticabile anzitutto per ragioni pratiche. La svolta presidenziale non richiederebbe qualche emendamento alla Costituzione, ma una riscrittura integrale dell’intera seconda parte. Richiederebbe anche una ridefinizione dei poteri neutri, magistratura compresa. Ma in tutta evidenza si aprirebbe un’infinita catena di scontri. Non c’è alcuna base condivisa sul semi-presidenzialismo (mentre invece sul sistema parlamentare abbiamo una Costituzione in piedi, seppure bisognosa di correttivi). Non è neppure matura una riflessione sulla crescita di tutti i poteri neutri – non solo la magistratura – e questo è un fenomeno che riguarda ogni sistema politico occidentale. Chi vuole imporre il semi-presidenzialismo, in realtà, non vuole le riforme. Facciamo oggi ciò che è possibile e giusto fare per dare all’Italia un governo e un Parlamento all’altezza della sfida europea e globale. Poi, in futuro, si vedrà dove e come riprendere il discorso.
L’Unità 28.06.13