Hanno abolito l’obbligo della chiarezza e dunque uno sfrattato non può più protestare quando lo chiamano «cittadino passivo di provvedimenti esecutivi di rilascio». Ma forse è l’ora di reagire. Darebbe certamente il via alla rivolta linguistica quel cameriere di bar che segnasse l’ordinazione dell’ex ministro Patroni Griffi usando il burocratese che gli piace tanto.
E CHE consiste nello scrivere caffè senza mai chiamarlo caffè, ma «altresì assumendo che il liquido in oggetto non sia da iniettare e tenendo conto che trattasi di connubio tra acqua e piccoli semi tropicali».
Conosco una signora che ha due codici fiscali. Le hanno chiesto «la cerzioriazione » per stabilire «la anteriorità al fallimento di formazione del documento di garanzia» e ovviamente con riferimento «al diritto ex adverso azionato». Ebbene, i funzionari che (non) le hanno spiegato come uscire dalla doppia identità da due giorni non violano più il codice di comportamento dei dipendenti pubblici. Dopo dodici anni infatti è stata cancellata la norma che li obbligava «ad adottare un linguaggio chiaro e comprensibile».
Non che mai siano stati chiari e comprensibili, ma c’è una grande differenza tra una norma disattesa e una norma cancellata che diventa – oggettivamente, si diceva una volta – un incoraggiamento all’oscurità e all’incomprensibilità, virtù spagnolesche e bizantine che in Italia ammorbano il Diritto. E non solo nei testi legislativi che costringono il cittadino a navigare nell’incertezza e nella confusione e ad affidarsi sempre di più ai tecnici del cavillo, ma anche nelle sentenze dei magistrati che, pure, in base all’articolo 546 del Codice di procedura penale, già dovrebbero essere sempre «concise».
È almeno da sperare che Patroni Griffi, che firmò da ministro il provvedimento ora promulgato, abbia abrogato la norma sulla chiarezza cedendo alla rassegnazione e non alla restaurazione. Di sicuro infatti era in burocratese lo stesso codice che conteneva la norma contro il burocratese. Ed è in burocratese il codice che la cancella, e non solo perché frastagliato di formule e di commi, riferimenti, eccezioni e rimandi.
Ieri sul “Piccolo” di Trieste il linguista Michele Cortelazzo ha scritto che «si tratta di un vergognoso passo indietro» e ha fatto il seguente esempio di burocratese che vela, e dunque svela, l’ignoranza: «In una situazione economica così difficile può accadere che l’azione di vigilanza venga reputata dal datore di lavoro “inopinata” e inutilmente punitiva. Ma legittime doglianze non possono divenire congetture o, ancor più, critiche “inopinate” al rigore sanzionatorio…» Commenta il professore: «…chi ha usato, due volte, l’aggettivo inopinato, sapeva cosa scriveva? Non credo, perché il testo non ha proprio senso. Probabilmente la dirigente (di Cremona ndr) intendeva dire infondata» ma inopinato significa un’altra cosa: «imprevisto, inatteso».
Il burocratese però non è roba da ignoranti. C’è una logica esatta, anche se diagonale e sfasata, nell’ uso di «regolamento recante norme», «ai sensi dell’articolo», «disposizioni concernenti». Ed è una logica che diventa comica e assurda solo quando viene applicata alla vita normale: è possibile ordinare un caffè senza pronunciare
la parola caffè?
La prima regola del burocratese è di non usare mai una sola parola quando al suo posto se ne possono usare almeno due, e meno chiare: non decisioni dunque ma «processi decisionali», i documenti sono «supporto documentale», le azioni «il compimento di attività», il biglietto è «il titolo di viaggio». La seconda regola è mai seguire una strada dritta e breve quando se ne possono seguire almeno quattro storte e lunghe: «La norma suesposta è preordinata al fine di evitare la eccessiva incidenza della pendenza dei procedimenti amministrativi sulla esplicabilità delle posizioni di vantaggio degli amministrati ».
E sarebbe troppo facile dire chiaramente che il dipendente non deve accettare regali in cambio del suo lavoro quando si può dire oscuramente che «non deve accettare regali o altre utilità da soggetti che possano trarre benefici da decisioni o attività inerenti all’ufficio, né da soggetti nei cui confronti è o sta per essere chiamato a svolgere o a esercitare attività o potestà proprie dell’ufficio ricoperto».
Giustamente la “norma Bassanini”, che prende il nome dal Don Chisciotte che contro tutte le evidenze la voleva, quando fu promulgata dal ministro Frattini (2001) fu salutata da una festa linguistica. Sul nostro giornale, il collega Giancarlo Mola scrisse: «La “reversale” ha i giorni contati, presto diventerà una semplice ricevuta. I “pieghi” torneranno ad essere normali buste da lettera. Il denaro non sarà più “ripetuto”, ma banalmente restituito. Quanto all’ “orario antimeridiano” sarà soppiantato dalla più sobria mattinata».
Cosi non è stato, malgrado fossero stati promessi una task force di esperti con un numero di telefono “sos lingua” e la predisposizione di modelli prestampati di chiarezza. Per la verità nessuno ci aveva creduto sino in fondo. Ma solo ora l’operazione “parlare chiaro” è davvero una bruciante sconfitta. Il burocratese ha vinto. Non ci resta che aspettare nell’oscurità quel cameriere che, «dopo avere comunicato nella sede competente il suo personale favore all’ accoglimento della richiesta e considerando acquisito il liquido sopraindicato », dica «ecco» posando un calamaio sul tavolo del ministro. E Patroni Griffi: «Ma io avevo chiesto un caffè». E quello, scappando via: «Appunto».
La Repubblica 28.06.13
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