Dal 2002, nel mondo, secondo dati OMS, la prima causa di uccisione di donne tra i 16 e i 44 anni è l’omicidio da parte di persone conosciute. E il 35% delle donne subisce nel corso della vita qualche forma di violenza.
Mentre gli omicidi di uomini sono di solito commessi da sconosciuti, durante atti di criminalità, quando ad essere uccisa è una donna è spesso per mano di persone vicine, in particolare partner o ex partner. È un dato consolidato nella storia, ma di recente consapevolezza.
Solo dagli anni ’90 si è iniziato a parlare di «femmicidio», per definire l’omicidio volontario di donne «perché donne», e poi di «femminicidio», per indicare ogni forma di discriminazione e violenza rivolta contro la donna, al di là dell’omicidio.
Come accade sempre con il linguaggio, nominare femmicidio e femminicidio ha permesso di renderli evidenti, riconosciuti, esistenti. Di svelare il rapporto tra violenza e stereotipi, tra violenza e mentalità maschiliste che hanno da sempre governato il mondo.
È nei modelli di famiglia, in concezioni del rapporto di coppia fondati sulla gerarchia, in un’idea dell’amore come possesso che si nascondono le ragioni culturali che portano alle violenze verso le donne, spesso proprio verso le donne «amate».
In Italia la maggior parte delle violenze non sono denunciate perché perpetrate in un contesto culturale maschilista, dove la violenza domestica non è sempre percepita come un crimine, dove le vittime sono economicamente dipendenti dai responsabili della violenza, dove persiste la percezione che le risposte fornite dallo Stato non sono adeguate.
Quando uno Stato fallisce nel perseguire femmicidio e violenze, l’impunità non solo umilia ancor più chi la vittima, ma manda un messaggio alla società, lascia intendere che la violenza nei confronti delle donne è accettabile, inevitabile.
La ratifica della Convenzione di Istanbul, appena completata, è un primo passo per invertire la rotta: riconosce la violenza sulle donne e domestica come violazione dei diritti umani, sancisce il principio secondo cui ogni persona ha il diritto di vivere libera dalla violenza e pone agli Stati il vincolo concreto del raggiungimento dell’uguaglianza tra i sessi de jure e de facto.
Occorre ora implementare il corpus normativo. Per questo con molte altre senatrici e molti senatori, di tutti i gruppi parlamentari, abbiamo proposto l’istituzione di una Commissione bicamerale sui fenomeni di femmicidio e femminicidio, che risponda al dovere istituzionale, oltre che morale, di domandarsi se è stato fatto tutto quello che si poteva fare o se occorre un cambiamento più strutturale nelle azioni di contrasto alla violenza verso le donne.
La Commissione lavorerà per rilevare le dimensioni del fenomeno, individuare le misure necessarie, monitorare l’efficacia dell’azione istituzionale. Serve poi modificare la cultura del Paese, superare la resistenza di un potere maschile e maschilista, prevenire discriminazioni e sessismi prima che degenerino in meccanismi patologici, intervenire con l’educazione.
La scuola e i libri di testo, spesso in modo inconsapevole, sono sessisti: trasmettono stereotipi e comportamenti che favoriscono le gabbie comportamentali di genere. Occorre invece incoraggiare, proprio a partire dalla scuola, la cultura del rispetto delle identità di genere e il superamento degli stereotipi sessisti. E adottare il codice «Polite» che prescrive per un linguaggio rispettoso delle differenze di genere per i libri di testo.
Serve insomma un’azione di sistema, che unisca misure immediate come il sostegno ai centri antiviolenza e un cambiamento culturale e normativo più profondo e lungo, per sradicare ogni forma di discriminazione e violenza di genere e garantire l’uguaglianza sostanziale delle donne come prevista dall’articolo 3 della Costituzione.
Abbiamo una responsabilità enorme, che guarda al presente, a chi oggi subisce o rischia di subire violenze, e guarda al futuro, alle bambine e ai bambini cui lasciare un Paese in cui crescere liberi dalla violenza.
l’Unità 28.06.13