In un’intervista pubblicata ieri nell’inserto domenicale del Corriere della Sera, Gianroberto Casaleggio ha sintetizzato il «manifesto costituzionale» del Movimento 5 Stelle. Contenuti e toni si ispirano al pensiero democratico radicale, adeguato all’epoca di Internet. Al centro vi è l’idea che «la democrazia rappresentativa, per delega, perderà significato. È una rivoluzione prima culturale che tecnologica». In questo contesto, «muta la natura» del Parlamento: i suoi componenti «devono comportarsi da portavoce, il loro compito è sviluppare il programma elettorale e mantenere gli impegni presi con chi li ha votati», con la conseguenza che dovrà essere introdotto il recall dei deputati. Ma l’agenda costituzionale pentastellata è assai articolata e richiede una revisione dell’«architettura costituzionale nel suo complesso in funzione della democrazia diretta», e occorrerà introdurre «il referendum propositivo senza quorum, l’obbligatoriet à della discussione parlamentare delle leggi di iniziativa popolare, l’elezione diretta del candidato che deve essere residente nel collegio dove si presenta, l’abolizione del voto segreto, l’introduzione del vincolo di mandato».
Secondo Casaleggio, la democrazia diretta è leaderless e il concetto di leadership è incompatibile con essa. Così come la segretezza, che deve cedere il passo in via generale alla trasparenza, che in futuro «diventerà obbligatoria per qualunque governo o organizzazione». In tale contesto «il parlamentare o il presidente del Consiglio è un dipendente dei cittadini, non può sottrarsi al loro controllo, in caso contrario non si può parlare di democrazia diretta e forse neppure di democrazia ».
Alle interessanti ma per nulla nuove (si vedano il cartismo, i movimenti svizzeri per la democrazia diretta, alcuni filoni del pensiero comunista, ecc.) proposte di Casaleggio è possibile opporre almeno tre ordini di obiezioni.
In primo luogo la democrazia diretta postula la partecipazione permanente dei cittadini alla vita pubblica. Ma questa si scontra con l’esigenza della divisione del lavoro, che è alla base di ogni società organizzata: in virtù di essa solo una parte relativamente ridotta di cittadini può dedicarsi a tempo pieno magari per un periodo limitato alla gestione della cosa pubblica. Oltre alle sfide che il lavoro e la complessità della vita urbana contemporanea pongono al cittadino, vi è la legittima aspirazione a ricercare la felicità anzitutto nella vita privata, mentre il tempo che è possibile dedicare alla politica è ridotto, salvo che nella dimensione locale.
Del resto, la riprova di questa sfida viene proprio dalla crisi della democrazia dei partiti: al di là delle tendenze oligarchiche di questi ultimi (tendenze a cui non sono sottratti i movimenti), la realtà delle democrazie contemporanee evidenzia proprio una riduzione della partecipazione dei cittadini nei partiti politici. Cosa ci assicura che grazie a Internet non sar à più così e che attraverso la rete sarà possibile una partecipazione ordinata (da popolo, non da folla) alla vita della polis? E come tutelare i cittadini che decidono di partecipare solo occasional-
mente, specie qualora essi siano la larga maggioranza dell’elettorato?
La seconda obiezione si riferisce all’idea assai schematica che i parlamentari possano ridursi a portavoce di programmi predeterminati in sede elettorale. Se ciò deve senza dubbio avvenire per i grandi principi orientatori della linea politica di un partito, questa tesi tace sul fatto che la realtà si modifica continuamente e che sorgono ogni giorno problemi nuovi (si pensi ai governi eletti nella prima metà del 2001, chiamati a governare dopo l’11 settembre).
Come è possibile governare un Paese con deputati «ingessati» sulle proposte sulla base delle quali sono stati eletti? E se si muove dall’idea che i movimenti o partiti che competono nell’arena elettorale esprimono solo una parte degli interessi presenti nella società, come è possibile raggiungere compromessi (che, come osservava Kelsen, sono essenziali in democrazia) in un sistema in cui i parlamentari sono vincolati al mandato degli elettori e al programma su cui sono stati eletti?
Ma l’obiezione più radicale riguarda proprio l’idea centrale di Casaleggio: quella della democrazia diretta come forma di democrazia alternativa alla rappresentanza. Certo, il guru del M5S non arriva a teorizzare la soppressione del Parlamento (come Schmitt, Lenin e Mussolini), ma preconizza una sua radicale trasformazione, che investirebbe la politica democratica nel suo complesso.
La riflessione contemporanea sulla democrazia partecipativa, tuttavia, sta percorrendo un’altra strada: quella dell’integrazione, correzione e arricchimento della rappresentanza con istituti come l’istruttoria pubblica delle leggi e il dibattito pubblico (che sono stati previsti dalla legislazione regionale in Emilia-Romagna e Toscana). E su questa linea non è impossibile correggere istituti come il referendum e l’iniziativa legislativa, ma alla condizione di non coltivare l’irrealistica illusione di un corpo sociale capace di autogovernarsi unicamente attraverso queste procedure e una rete di cittadini portavoce.
Che la leadership sia un ingrediente ineliminabile della democrazia contemporanea è del resto un dato acquisito da Hermens in poi e ciò è vero nei movimenti ancor più che nei partiti. La pratica del Movimento 5 Stelle in questi mesi (Grillo e Casaleggio docent) ne è una conferma.
L’Unità 24.06.13
Pubblicato il 24 Giugno 2013