Il mondo sviluppato sembra accorgersi con sorpresa che lo sviluppo turbolento del ventennio precedente la crisi del 2007 ha allargato i divari di reddito all’interno dei paesi: basti ricordare che la quota di reddito guadagnata dall’1% più ricco è cresciuta sistematicamente in tutti i paesi dell’area sviluppata (in Italia dal 6% del 1984 al 9% del 2004, negli Stati Uniti dal 9% al 16% nello stesso periodo). La ricerca accademica (ivi compreso il progetto Gini) si è pertanto interrogata sulle cause di questo aumento della diseguaglianza e delle connessioni col funzionamento delle dinamiche sociali e politiche all’interno dei diversi paesi. Tra le cause l’attenzione si è focalizzata sulla formazione scolastica da un lato e sul funzionamento del mercato del lavoro dall’altro. Il generalizzato conseguimento di istruzione secondaria, accompagnato dall’innalzamento della frequenza universitaria, ha prodotto una riduzione della diseguaglianza misurata in termini di credenziali educative, cui però non si è accompagnato un parallelo declino della diseguaglianza misurato in termini di qualità della formazione ottenuta. Paesi caratterizzati da sistemi scolastici poco omogenei (sia territorialmente sia curricularmente, come per esempio l’Italia) non riescono a compensare i divari di origine familiare nella formazione delle competenze, e questo si traduce in un meccanismo di mantenimento della diseguaglianza nel tempo.
Nel mercato del lavoro entrano quindi generazioni in media più istruite, ma al loro interno non meno diseguali in termini di capacità effettive. E queste stesse generazioni si trovano a fronteggiare mercati del lavoro che sono regolati in modo molto diverso: alcuni paesi assicurano minimi salariali (per via legislativa o per via contrattuale), altri paesi favoriscono la frammentazione degli orari e/o delle durate contrattuali, altri ancora assicurano sostegno più o meno generoso ai disoccupati. Tuttavia in molti paesi la legislazione sul mercato del lavoro negli ultimi vent’anni ha provveduto a flessibilizzare le condizioni lavorative principalmente (o esclusivamente) dei nuovi entranti, creando artificialmente un dualismo nei diritti ma anche (e principalmente) nei livelli retributivi. La dimensione generazionale della diseguaglianza appare particolarmente pronunciata nei paesi dove la crescita della popolazione si è completamente arrestata (Giappone, ma anche Italia) rendendo più difficile l’individuazione di possibili politiche redistributive. Non è forse casuale che negli stessi paesi si sia osservato il declino (o persino la scomparsa) della tassazione sulle eredit à, che in linea di principio rappresenta lo strumento principale di redistribuzione tra generazioni.
Questo non significa che la società non si sia data strumenti di redistribuzione che rendono meno penosa la carenza di reddito (fino ad arrivare alla povertà). La formazione delle famiglie è uno strumento potente per attenuare le diseguaglianze dei redditi che si formano nel mercato del lavoro, in quanto permette di compensare almeno parzialmente i divari di genere, di istruzione ed in parte anche di età. Tuttavia tale ruolo si è andato attenuando nel corso del tempo per almeno due ragioni: la prima è per la crescente omogamia (cioè formazione di coppie con partner sempre più simili, in termini di istruzione ma anche di capacità di guadagno) che si traduce in polarizzazione: coppie “ricche” di lavoro e di reddito sono compresenti a coppie povere o disoccupate; la seconda è che al crescere dell’incidenza di divorzi e separazioni anche questo meccanismo basilare di redistribuzione viene a scomparire. E non dimentichiamo che la famiglia è comunque un rimedio solo parziale, in quanto redistribuisce all’interno di uno stesso asse familiare, ma non tra “dinastie”, preservando quindi la disuguaglianza nel tempo. Per queste ragioni l’intervento pubblico, attraverso tassazione e/o pagamento di sussidi, rimane lo strumento attualmente più efficace nel contenere la diseguaglianza dei redditi che tende a generarsi sul mercato del lavoro.
Il Sole 24 Ore 24.06.13
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“L’Italia dei redditi disuguali”, di Barbara Bisazza
L’Italia è tra i paesi che registrano le maggiori disuguaglianze nella distribuzione dei redditi, seconda solo al Regno Unito nell’Unione europea e con livelli di disparità superiori alla media dei paesi Ocse. Non solo: nel nostro paese la favola di Cenerentola si avvera con sempre minore frequenza, nel senso che le coppie tendono maggiormente a formarsi tra percettori di reddito dello stesso livello; inoltre, gli estremi si allontanano, ovvero i ricchi sono sempre pi ù ricchi e i poveri sempre più poveri. E la ricchezza si sposta sempre più nei portafogli della popolazione più anziana, a scapito delle giovani generazioni (si veda il grafico in alto a destra).
Sono queste le tendenze di fondo per l’Italia, che emergono dallo studio “Gini-Growing inequality impact” commissionato dalla Ue, nell’ambito del VII Programma quadro, a un pool di gruppi di ricerca di diverse università europee: un progetto, finanziato con oltre due milioni di euro e sviluppato per circa tre anni, i cui risultati saranno pubblicati in due volumi entro dicembre.
La disparità nella distribuizione dei redditi è stata misurata con l’indice di Gini: si tratta di un indice di concentrazione il cui valore può variare tra zero e uno. Valori bassi indicano una distribuzione abbastanza omogenea, valori alti una distribuzione più disuguale, con il valore 1 che corrisponderebbe alla concentrazione di tutto il reddito del paese su una sola persona.
Dallo studio emerge che, alla fine della prima decade degli anni Duemila, l’Italia ha un indice di Gini pari a 0,34: ovvero, due individui presi a caso nella popolazione italiana hanno mediamente, tra di loro, una distanza di reddito disponibile pari al 34% del reddito medio nazionale.
I 30 paesi considerati nello studio sono stati classificati per macrogruppi, a seconda delle dinamiche registrate tra gli anni Ottanta e la prima decade del Duemila. Ci sono i paesi continentali europei (Germania, Francia, Austria, Belgio e Lussemburgo) che presentano un indice di disuguaglianza tra 0,26 e 0,30, praticamente costante e ben al di sotto del valore italiano (si consideri che, data la struttura dell’indice, una differenza di pochi centesimi di punto si traduce in differenze di reddito significative); un secondo gruppo è quello dei paesi nordici, che presenta un trend crescente di disuguaglianza trainato principalmente da Finlandia e Svezia, ma a partire da valori più bassi; c’è poi il gruppo delle economie di mercato (tra cui Usa, Australia, Regno Unito), tendenzialmente con un welfare poco generoso, in cui le disuguaglianze tendono a essere elevate.
L’Italia fa parte del gruppo dei paesi mediterranei, nei quali si evidenziano livelli di disuguaglianza abbastanza alti. La situazione italiana era molto meno disuguale negli anni Sessanta e, da metà anni Settanta, finché c’è stata la scala mobile (nel 1992 l’indice di Gini era di circa 0,27). Poi l’indice di disuguaglianza è schizzato verso l’alto, rimanendo in seguito abbastanza piatto.
Un ultimo gruppo è quello dei paesi dell’Est: prima della caduta del muro di Berlino (1989) avevano livelli simili a quelli dei paesi nordici, poi le reazioni sono state diverse da paese a paese.
Lo studio ha considerato gli effetti dei livelli di istruzione e delle dinamiche del mercato del lavoro sulla generazione della disuguaglianza nella distribuzione dei redditi, che a sua volta incide sui comportamenti sociali e politici. La progressiva scolarizzazione nei paesi sviluppati, nell’arco dell’ultimo secolo, ha ridotto le disuguaglianze nei livelli di istruzione: in Europa le generazioni nate negli anni Venti completavano in media nove anni scolastici; quelle nate a metà degli anni Ottanta sono arrivate in media al diploma di scuola superiore (14 anni scolastici). Ma questo non si è tradotto in una effettiva riduzione anche delle disuguaglianze nei redditi. Perché? È cambiato il mercato del lavoro: i nuovi entrati sono più istruiti, ma nel contempo meno garantiti, e quindi meno in grado di risparmiare e accumulare ricchezza, che a sua volta può nel tempo assicurare redditi da capitale e da proprietà.
IL Sole 24 ore 24.06.13