Il lavoro è democrazia. Con questo slogan si è svolta la manifestazione unitaria dei sindacati a piazza San Giovanni. È tornata così a parlare, dopo le nefaste consuetudini di divisioni e di accordi imposti con firme separate, quella parte di società che più paga la crisi ed è meno rappresentata. Non c’è nulla di più semplice nella galassia della comunicazione che la rimozione del lavoro, delle sue parole, dei suoi simboli, dei suoi riti.
Senza lo spirito di lotta, e quindi senza il ritorno visibile dei sindacati nello spazio pubblico, il lavoro non esce dalla naturale spirale del silenzio. E, nel vuoto della rap- presentanza politica, crescono la rabbia, la sensazione di impotenza nei confronti di un fato inarrestabile. Dopo sei anni ininterrotti di crisi-contrazione e di duri sacrifici che si susseguono senza aprire alcuno spiraglio positivo, è un bel segnale che il lavoro si mobilita. E la recuperata soggettività del lavoro fa molto bene anche alla democrazia perché la rende immune da insane sensazioni di panico e dagli spasmi di decadenza, che sempre accompagnano la crisi verso gli abissi.
Con le sue politiche immediate, il governo dovrebbe anzitutto impedire che il malessere sociale e la crisi democratica si intreccino. Non conduce certo molto lontano l’illusione che al primo posto dell’agenda di un governo di emergenza occorra mettere il tema dei costi della politica. L’antipolitica vince perché c’è un disagio sociale profondo che non trova risposte efficaci e per questo genera ansia, suscita rivolta sorda in ogni segmento della cittadinanza. L’antipolitica è in tal senso un sintomo, non la causa della volontà nichilistica di ribellione diffusa.
Non durerebbe molto a lungo il governo se pensasse che sopravvivere significa accontentare un po’ la piazza (con i tagli simbolici dei finanziamenti ai partiti) e accordare poi udienza al palazzo con le sue richieste di cedimenti sul terreno della legalità (aggirare le stringenti procedure per la decadenza del parlamentare Berlusconi in caso di condanna definitiva del reo). Con queste alchimie, navigherebbe solo per un po’, prima di urtare contro gli scogli e affondare in maniera rovinosa.
Dalla piazza del lavoro organizzato viene indicata al governo la sola strada giusta per conservare la democrazia in un tempo di crisi. In un Paese che spicca nel mondo per la assoluta mancanza di crescita, gli investimenti disponibili vanno indirizzati avendo come priorità inderogabile il lavoro. Il lavoro, che per intere generazioni manca o è precario, intermittente, privo di valore va imposto come la grande emergenza. Va tutelato il lavoro, che i media descrivono come un’isola di assoluto privilegio quando invece da vent’anni subisce una eccezionale perdita di salario, di diritti, di capacità di consumo, di protezioni sociali minime.
La tendenza storica del capitale – si sa – è quella di cercare una espansione che procede «con la messa in libertà» del lavoro, cioè con la spinta, scriveva già Marx, a «rendere più liquido il lavoro», che deve sbrigarsela con una esistenza che «diventa sempre più precaria». Al mercato, che richiede «un lavoratore attivo, ma con una occupazione assolutamente irregolare», ci si può opporre solo con il sindacato, cioè con «una cooperazione sistematica tra i lavoratori occupati e quelli disoccupati». Questa consapevolezza del sindacato (l’obbligo cioè dell’unità di garantiti e non garantiti, contro ogni spinta corporativa) deve essere ancora più forte in condizioni di crisi.
Proprio perché manca lo sviluppo, tocca alla politica combattere la diseguaglianza come agente principale di incertezza, come fattore di squilibrio economico e quindi in sostanza come causa essenziale di decrescita. Non serve certo, per invertire il lungo ciclo recessivo, recuperare vent’anni dopo la vetusta ricetta di Blair, appassita in tutte le culture progressiste d’Europa. Servono invece politiche pubbliche espansive concepite a partire dal lavoro e dalla sua nuova domanda di eguaglianza.
È durata molto poco l’infatuazione dei ceti produttivi del microcapitalismo (due milioni di imprese, con 14 milioni di addetti) per le commedie di Grillo, cui si erano rivolti (come il 40 per cento degli operai!) dopo le delusioni cocenti provocate da Berlusconi e Bossi. La promessa grillina di mandare tutti a casa per poi dedicarsi alla decrescita felice, alla povertà dolce, non è certo una miracolosa ricetta per riaprire i capannoni, per recuperare ai laboratori le commesse che mancano, per indurre la pubblica amministrazione ai pagamenti dovuti.
Dopo il fallimento dei due comici, l’impresa farebbe bene a non fuggire di nuovo nelle illusorie narrazioni dell’antipolitica e a trattare invece con il lavoro le condizioni per la ripresa. Il 70 per cento della produzione è destinata al mercato interno (locale, regionale). È quindi pura miopia non cogliere la centralità del salario e dei diritti dei lavoratori per favorire anche la crescita. La democrazia è lavoro.
L’Unità 23.06.13