Vedere una piazza piena di lavoratori appartenenti alle maggiori confederazioni sindacali che manifestano il loro scontento per lo stato in cui versano l’occupazione e l’economia, mentre i segretari si alternano sul palco per chiedere che il governo assuma finalmente qualche iniziativa seria in tema di politiche del lavoro, è un buon segno per l’intera società – con una nube residua all’orizzonte che speriamo arrivi a dissiparsi. La marcia in ordine sparso dei sindacati italiani, durata un decennio, è costata cara ai lavoratori e all’intera economia. Lo attestano sia i dati sia molte diagnosi sugli effetti della crisi nel nostro Paese. Fra il 1990 e il 2009 la quota salari sul Pil si è ridotta di quasi il 7 per cento in Italia, ma solo del 5 in Germania, del 4 nel Regno Unito, e meno del 3 in Francia. I sette punti in meno andati al lavoro, che in moneta corrente valgono oltre 110 miliardi, sono andati ai profitti e alle rendite. Ma non si sono affatto trasformati in investimenti produttivi. Per quasi tutto il periodo gli investimenti in capitale fisso (impianti, macchinari) sono regrediti, segnando un picco negativo nel 2008-2009. Dove sono finiti profitti e rendite? In prevalenza hanno preso la strada degli investimenti finanziari. Per alcuni anni, questi ultimi hanno reso molto di più degli investimenti nell’economia reale, per cui le imprese hanno destinato ad essi i profitti, in misura maggiore che non negli altri paesi Ue. Con una ricaduta che ha nuociuto anche alle imprese. Infatti almeno l’80 per cento del Pil è formato dai consumi delle famiglie, e se a queste vengono a mancare decine di miliardi l’anno, i risultati si vedono: migliaia di serrande abbassate e d’impianti fermi.
Se mai i sindacati pensassero di presentare unitariamente al governo dei temi su cui discutere, in luogo della pioggerella di miniprovvedimenti sul lavoro che esso ha finora escogitato, c’è solo da scegliere. In primo luogo bisognerebbe chiedere al governo di mettere al primo posto nella sua agenda il tema della piena occupazione. Può sembrare chiedere troppo, di fronte ai numeri della disoccupazione. Il fatto è che se lo scopo primo della politica economica è quello di puntare alla piena occupazione, molte altre politiche ne discendono a cascata in modo preordinato, a cominciare da quelle riguardanti la crescita. Nel caso che il Pil dovesse ricominciare a crescere, ma l’occupazione no — situazione assai probabile — quei tot milioni non ne trarrebbero nessun vantaggio. La piena occupazione non è nemmeno un obbiettivo di sinistra. Uno dei libri più acuti e concreti sull’importanza economica, sociale, politica di porre la piena occupazione in cima all’agenda governativa è stato scritto tempo fa da un grande liberale (William Beveridge).
Nell’agenda del governo i sindacati uniti potrebbero pure chiedere di inserire la distribuzione del reddito e della ricchezza. Il più drammatico mutamento sociale degli ultimi trent’anni è stata la redistribuzione dell’uno e dell’altra dal basso verso l’alto che si è verificata nella Ue come in Usa. La caduta della quota salari in quasi tutti i paesi Ocse è stata soltanto un aspetto di tale redistribuzione alla rovescia, che facendo crescere a dismisura le disuguaglianze ha contribuito non poco a preparare la crisi esplosa nel 2007. I sindacati non hanno molti mezzi per premere in tale direzione, ma almeno uno di peso ce l’hanno: il contratto nazionale di lavoro. La sua funzione è stato ridotta dall’importanza che gli ultimi governi e una parte dei sindacati hanno inteso dare alla contrattazione decentrata. Ma se si vuole restituire ai lavoratori qualcosa di ciò che hanno perso negli ultimi vent’anni, è difficile individuare altre strade che non comprendano la contrattazione a livello nazionale.
Vi sarebbe ancora una richiesta da portare unitariamente al governo: elaborare una politica industriale. Ma non una politica qualunque. Piuttosto una politica che parta da una quasi certezza: i posti di lavoro andati persi dopo il 2007 non saranno mai più recuperati nei medesimi settori produttivi o affini. Il motivo va visto nel grande sviluppo che l’automazione di terza generazione ha avuto in pochi anni. Il suo punto di forza sono i robot intelligenti, capaci di fare moltissime cose che appena un lustro fa soltanto la mano dell’essere umano era capace di fare. Ora si dà il caso che l’Italia sia stato nel triennio 2010-2012 il maggior acquirente di robot industriali d’Europa, dopo l’irraggiungibile Germania. Cessata per ora, con qualche delusione, l’euforia per gli investimenti finanziari, le imprese hanno ripreso a investire in capitale fisso, dando però la preferenza ai macchinari che sostituiscono il lavoro umano. Una politica industriale che guardi un po’ più avanti dell’anno prossimo, dovrebbe quindi essere concepita per attuare una transizione ordinata di masse di lavoratori dai settori produttivi investiti dalla nuova automazione, ad altri settori sia tradizionali che innovativi, purché essi comportino un’alta intensità di lavoro e una difficile sostituibilità da parte delle macchine.
Con proposte del genere, i sindacati di nuovo uniti potrebbero riempire l’agenda del governo per lungo tempo. Tra un intervallo e l’altro della discussione, potrebbero anche cercar di diradare la nube cui ho accennato all’inizio. Va bene l’unità al tavolo del governo. Ma per far avanzare qualsiasi genere di proposta non effimera, sarebbe necessaria anche l’unità ai tavoli dove i sindacati hanno di fronte le imprese. Tale unità al momento non esiste, perché una delle maggiori federazioni a quei tavoli non ha il diritto di sedersi, o di esservi rappresentata. Potrebbe essere giunto il momento di dar attuazione per legge all’articolo 39 della Costituzione, stando al quale tutti i sindacati registrati hanno uguale personalità giuridica.
La Repubblica 23.06.13