La settimana scorsa il Fondo monetario internazionale, che di solito ha il ruolo di intransigente disciplinatore di governi spendaccioni, ha dato agli Stati Uniti un consiglio alquanto insolito. “Tiratevi su!” ha detto il Fondo. “Godetevi la vita! Cogliete l’attimo!”. È vero, i dirigenti del Fmi non hanno utilizzato esattamente queste espressioni, ma ci sono andati abbastanza vicini, con un articolo pubblicato sulla rivista “IMF Survey” intitolato “Ease Off Spending Cuts to Boost U. S. Recovery” (Allentate un po’ i tagli alla spesa per dare un forte slancio alla ripresa degli Usa). Nella sua comunicazione più formale, in sostanza il Fondo afferma che la confisca e altre forme di contrazione fiscale taglieranno il tasso di crescita statunitense di quest’anno quasi della metà, compromettendo quella che diversamente potrebbe essere una ripresa abbastanza vigorosa. Per di più, questi tagli alla spesa sono poco ragionevoli e poco efficaci.
Purtroppo, da quanto sembra il Fondo non è riuscito a farla finita una volta per tutte con il principio dell’austerità, considerato una sorta di contrassegno
di serietà nel mondo politico. Pur esortandoci a tenerci deficit più alti per il momento, Christine Lagarde, a capo del Fmi, ci sollecita ad “accelerare la messa in campo di una road map a medio termine per ripristinare la sostenibilità fiscale a lungo termine”.
E quindi io mi chiedo: per quale motivo dovremmo mai sbrigarci e fare tutto di corsa? È davvero così urgente accordarci oggi su come affrontare le questioni fiscali negli anni 2020, 2030 e seguenti?
No, non lo è. In pratica concentrarsi sulla “sostenibilità fiscale a lungo termine” — che di solito significa per lo più essere favorevoli a una “riforma dei diritti acquisiti”, nota anche come tagli al Social Security e ad altri programmi — non è un modo di essere responsabili. Al contrario: è un pretesto, una scappatoia per evitare di affrontare i gravi problemi economici con i quali siamo alle prese adesso.
Dove è il problema del concentrarsi sul lungo termine? Parte della risposta — per quanto molto probabilmente la meno importante di essa — è che il lontano futuro è assai incerto (che sorpresa!) e che le proiezioni fiscali a lungo termine dovrebbero essere considerate per lo più un genere particolarmente tedioso di fantascienza. In particolare, le proiezioni di futuri enormi deficit sono in certa misura basati sull’ipotesi che le spese per l’assistenza sanitaria continueranno ad aumentare di gran lunga più rapidamente del reddito nazionale — anche se la crescita della spesa sanitaria è rallentata in modo smaccato negli ultimi cinque anni, e il quadro sul lungo periodo appare già molto meno cupo anche solo rispetto a poco tempo fa.
Ora, di per sé l’incertezza non sempre è un buon motivo per starsene inattivi. Nel caso del cambiamento del clima, per esempio, l’incertezza al riguardo dell’impatto dei gas serra sulle temperature globali di fatto rafforza la motivazione all’azione, per scongiurare il rischio di una catastrofe.
Ma la politica fiscale non è come la politica del clima, quantunque alcune persone abbiano cercato di instaurare un’analogia (e anche se quelli di destra, che sostengono di essere profondamente preoccupati per il debito a lungo termine, stranamente restano indifferenti nei confronti delle preoccupazioni ambientali a lungo termine). Rimandare nel tempo il momento di un intervento decisivo a sostegno del clima significa rilasciare altri miliardi di tonnellate di gas serra nell’atmosfera mentre continuiamo a discutere. Rimandare nel tempo il momento di agire al riguardo delle riforme dei diritti acquisiti ci costerà una cifra che nemmeno immaginiamo.
Di fatto, l’intero ragionamento a favore di un intervento tempestivo sulle questioni fiscali a lungo termine è sorprendentemente fragile e sdrucciolevole. Come mi piace sottolineare, per scongiurare il pericolo di futuri tagli ai benefit, secondo il giudizio dei più sarebbe doveroso intervenire immediatamente per tagliare i futuri benefit. No, non è affatto un’esagerazione.
E tuttavia, se può non essere necessario un “grande patto” che colleghi una minore austerità subito a cambiamenti fiscali a lungo termine, sarebbe dannoso cercare di perseguirlo? Sì. Sì perché non riusciremo a stringere quel tipo di accordo. Il paese, molto semplicemente, non è pronto dal punto di vista politico. Di conseguenza, il tempo e le energie impiegate a rincorrere un tale patto sono tempo ed energie sprecati, che sarebbero spesi meglio cercando di aiutare i disoccupati.
Mettiamola in questi termini: i repubblicani al Congresso hanno votato 37 volte per invalidare la riforma dell’assistenza sanitaria, il risultato politico che caratterizza la presidenza Obama. Davvero vi aspettereste che quegli stessi repubblicani siano disposti a raggiungere un accordo con il presidente sul futuro fiscale della nazione, così intimamente connesso al futuro dei programmi sanitari federali? Anche se tale accordo fosse raggiunto in qualche modo, davvero credete che il Gop (Grand Old Party) lo rispetterà, se e quando riconquisterà la Casa Bianca?
Quando potremo dirci pronti per un accordo fiscale sul lungo periodo? Dal mio punto di vista, soltanto dopo che gli elettori si saranno espressi risolutamente a favore dell’una o dell’altra delle visioni in antitesi tra loro che oggi pilotano la nostra attuale polarizzazione politica. Forse la presidente Hillary Clinton, reduce da poco da una disorganica vittoria nelle elezioni del 2018 di metà mandato, sarà in grado di mediare un compromesso sul budget a lungo termine con i repubblicani che avranno appena preso una bella batosta. Oppure, forse, saranno i demoralizzati democratici a firmare il piano del presidente Paul Ryan finalizzato a privatizzare Medicare. In ogni caso, non è ancora arrivato il momento di prendere decisioni importanti sul lungo periodo.
Tenuto conto che quel momento non è ancora giunto, le persone influenti devono smettere di prendere il futuro a pretesto per non passare all’azione. Il pericolo evidente e presente è la disoccupazione di massa, e di essa dovremmo occuparci. Subito.
Traduzione di Anna Bissanti © 2013, The New York Times-la Repubblica
La Repubblica 21.06.13
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