Il Governo di larghe intese è nulla in confronto alle convergenze parallele tra Beppe e Silvio. Che se ne facciano una ragione. Nel mondo delle groupie e dei devoti – quel mondo convocato in nome di una rivoluzione aziendale a reti unificate Mediaset o da un blog monologante – gli opposti destini si uniscono.
Un tripudio involontario ci mostra il volto più autentico dell’Italia, quando si sporge sull’orlo della crisi politica e finisce sempre per rifugiarsi nel carisma sgangherato.
Siamo davanti a un quadro sinottico. La tempistica illustra una sintonia involontaria. Mentre il popolo Cinque Stelle si convoca via web a piazza Montecitorio (un centinaio di persone in tutto, tra cui settanta addetti stampa) per un sit-in a difesa di Grillo ferito nell’onore dai virgolettati della senatrice Adele Gambaro, all’Hotel Nazionale va in scena la conferenza stampa dell’«Esercito di Silvio», un evento promosso da Simone Furlan e da un gruppetto di fedelissimi, mobilitato sullo sgocciolìo delle sentenze del Cavaliere: 19, 24 e 27 giugno. Legittimo impedimento; primo grado sul caso Ruby e Lodo Mondadori. Su tutto incombe l’eventualità di un’interdizione dai pubblici uffici.
Dunque: al motto «Io amo Silvio» risponde da Montecitorio un flebile «Io amo Beppe». E tutto si tiene. Troppo facile infierire sul costato dei cari leader, legati come San Sebastiano alla pancia del popolo. In balia dei traditori, dei giudici, dei giornalisti, ma soprattutto degli ingrati.
La parabola è sempre la stessa. L’avventura comincia con aforismi rivoluzionari pronunciati sul crinale di un disastro, discorsi a braccio contro i partiti; qualcosa di nuovo che non è di destra e non è di sinistra; un sogno armato di piede di porco per scardinare la democrazia dall’interno. Lo stile è guascone e battutaro. Il linguaggio amoreggia con le passioni o gli incubi domenicali: si scende in campo, oppure ci si fa portavoce del condominio-Italia. Orgogliosamente anti-intellettuali, Silvio e Beppe hanno una missione comune: smentire l’adagio che nessuno è profeta in patria. Allora parlano in modo semplice. Si vestono di anticomunismo e propongono l’insulto come surrogato di una formazione politica: noi siamo noi, e quelli di sinistra sono coglioni, oppure zombie.
Ma solo il leader è davvero aldilà del giudizio. E se qualcuno dissente, tocca radunare la milizia. I cattivi li chiamano talebani. Si tratta, in verità, di italianismi comuni: un popolo brancaleonico dove c’è un po’ di tutto: neofiti, destrorsi, aspiranti rivoluzionari, manettari o ultragarantisti, a seconda dei gusti. Per un Travaglio c’è sempre un Capezzone. È la legge dell’amoroso contrappasso.
I mezzi cambiano – l’altro ieri la radio a ogni grondaia di piazza, ieri la tv commerciale, oggi il web usato come la Pravda – ma il senso dello spettacolo è lo stesso: l’urlo ecumenico contro tutti, in doppiopetto o spruzzando il sudore dal palco, nasconde il sussurro dispotico della voce del padrone. Che ovviamente, poi, passa alla cassa.
E chiede il conto, stilando la lista dei cattivi da mandare al confino dietro la lavagna, o fuori dal Parlamento.
A costo di mettere in ballottaggio la propria faccia.
O con me, o contro di me.
E così arriva – immancabile come in un brutto copione – il referendum popolare, la marcetta davanti al palazzo di Giustizia o i post di fedeltà alla linea del guru. Chi mi ama mi segua. Con un corollario: chi mi ama mi appartiene, perché tutto questo l’ho fatto io.
E così, il delirio di onnipotenza finisce annacquato nei titoli, come si trattasse davvero di interesse nazionale.
Gli eletti di Berlusconi e di Grillo hanno in comune un senso di infinita gratitudine. La riconoscenza è la prima virtù. Il resto è un’opzione: ai seguaci non è dato ragionare di strategia.
Le somiglianze tra i due B. precedono la loro volontà, ma non gli obiettivi di medio termine. Solo i fiancheggiatori fingono ingenuità: Berlusconi e Grillo si appartengono come due amanti clandestini. Intanto, l’unico partito non personalistico, il Pd, annuncia che il segretario può anche non essere il candidato premier. E tante grazie dell’informazione.
L’Unità 19.06.13