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"Astenuti. Quando la democrazia funziona al 50 per cento", di Filippo Ceccarelli

Aiuto: sotto il 50 per cento degli elettori la democrazia, o quel che ne resta, smobilita. Meglio
accorgersene tardi che mai. Però quanti allarmi del lunedì riecheggiati a vuoto; quante vane geremiadi sull’apatia, la rabbia e la sfiducia che andavano intrecciandosi con l’eterno individualismo italiano, con quell’istinto di furba noncuranza e anarcoide “particulare” che già spinsero Guicciardini a scrivere: «E spesso tra ‘l palazzo e la piazza è una nebbia sì folta o uno muro sì grosso… «.
Spesso, si badi, non sempre. E non solo perché l’esercizio del voto è stato a lungo, per legge, «un obbligo al quale nessun cittadino può sottrarsi senza venir meno ad un suo preciso dovere verso il Paese». Una norma prevedeva addirittura per gli astenuti l’esposizione in una specie di gogna, l’albo comunale, così come la menzione “Non ha votato” era da registrarsi nel certificato di buona condotta.
Nel 1993 la nascente Seconda Repubblica cancellò quella legge e quelle sanzioni, peraltro mai applicate, delegando la questione al dettato costituzionale che all’articolo 48 definisce il voto un “dovere civico”. Per la verità, i Padri costituenti discussero se considerarlo un dovere anche “morale”. Chissà cosa penserebbero oggi nell’apprendere che tra le ragioni della scarsa affluenza al primo turno per il Campidoglio c’è chi ha segnalato il derby Roma- Lazio.
Era quell’Italia un paese appassionato di elezioni, oltre che di partite. Il record della partecipazione, 93,8 per cento, fu toccato nel 1953; e neanche a farlo apposta, proprio al termine di quella campagna elettorale Nicola Adelfi scrisse sull’Europeo che oltre al simultaneo svolgersi del Mese mariano, dell’incoronazione di Elisabetta II d’Inghilterra e all’uscita del Millecento Fiat, anche – e proprio! – la sconfitta calcistica dell’Italia da parte della selezione ungherese (3 a 0) aveva contribuito ad affollare le urne, galvanizzando gli elettori comunisti e suscitando in quelli di destra il desiderio di una rivincita per l’orgoglio nazionale ferito.
Tutto insomma incoraggiava il voto, dopo vent’anni di dittatura. I partiti, è vero, ci mettevano del loro, le foto d’epoca illustrano uno sforzo organizzativo commovente e capillare, camion, pullman, istituti religiosi, accompagnamento ai seggi di ammalati e di anziani. Le passioni e le tensioni ideologiche, l’esistenza di “nemici per la pelle” facevano
il resto.
Così fino agli albori del “riflusso”, che corrisponde alle politiche del 1979, l’astensione non andò oltre il 7-8 per cento. Ma adesso che quella modesta quota si è moltiplicata per sei e che l’assenteismo sta per sfondare il 50 per cento, diventa un’impresa anche solo chiedersi cosa diavolo ha gonfiato a dismisura il partito invisibile della fuga e cosa c’è dietro l’attrazione del vuoto, l’energia dell’assenza, il potere della collera che si fa estraneità, disgusto, rifiuto. Altro che “disaffezione”, come pure per
anni si è cercato di edulcorare il fenomeno.
E certo colpisce la povertà di analisi, di coraggio e fantasia al riguardo. Per cui le spiegazioni sono tante, o meglio sono troppe, che poi sarebbe un modo per dire che la faccenda è scivolosa, e quando le cause si confondono con le conseguenze vuol dire trovarsi nel cuore della crisi democratica.
Certo, anche al netto della fine del partito di massa, non ha giovato l’inflazione di referendum falliti, né la periodica tiritera «Andate al mare» (Craxi) o «Restate a casa» (Berlusconi) e neppure l’imprevidente scorciatoia «non partecipo quindi vinco» con cui un po’ tutti, compresi i vescovi, hanno finito per demoralizzare le scelte dei cittadini.
Allo stesso esito devono poi aver contribuito le ricorrenti recriminazioni sui costi delle elezioni e sui presunti brogli, oltre al caos dei sistemi di voto, che in Italia sono sette, record europeo di complicazione. Senza contare la pigrizia e la voglia di non sporcarsi le mani, il ribellismo e l’ignoranza, la stanchezza, il menefreghismo e la passività.
Ma è anche possibile che su un altro piano c’entri una politica ridotta ad annunci, consacrazioni e risse da talk-show, certe asprezze maggioritarie, una legge elettorale definita una “porcata” dal suo stesso autore, donde le bellone beneficate dal sovrano, i ladri nominati in Parlamento per non finire in galera e quanto porta il “dovere civico” a essere percepito come un inutile rito, un goffo alibi, comunque un’espressione ormai lontana dalla vita e dal cuore. E neanche più Grillo riesce a scaldare le urne.
E tuttavia nella diserzione di massa può esserci qualcosa di ancora più inconfessabile, tipo il calcolo che nel tempo della casta e dell’antipolitica, gli opposti estremismi della Terza Repubblica, le elezioni si vincono al ribasso: quanta meno gente vota, tanto più alta la probabilità di acchiappare il successo. Inutile dire che sopra, sotto e dietro tutte queste patologie s’indovina l’ombra del più inesorabile istinto di morte. E se la democrazia ha qualche opportunità di rinascere, ma in forme davvero nuove, è esattamente con esso che toccherà fare i conti.

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“DA MARGINALI A PROTAGONISTI”, di MICHELE SMARGIASSI
Non sono rinunciatari, votano non votando. Non sono muti spettatori, ma attori politici decisivi. Gli astenuti sono diventati astensionisti, figure inedite ma determinanti dello scenario politico italiano. Per Elisabetta Gualmini, presidente dell’Istituto Cattaneo di Bologna, quando un italiano su due non va alle urne non è più il caso di parlare di “non scelta”.
Come è cambiato il non votante, professoressa?
«L’astenuto tradizionale, l’elettore stanco, malato, pigro o indifferente, esiste ancora. Ma accanto a lui è cresciuto l’astensionista razionale, analitico, sofisticato: il cittadino critico che considera il non voto come una opzione politica».
Da dove viene l’“astensionismo attivo”?
«Il votante tradizionale tendeva a scegliere, nel menù elettorale, il partito più vicino ai propri ideali e interessi, salvo delusione. Ma la velocità e l’abbondanza dei canali di informazione, oggi, stringe i tempi e approfondisce il “pentimento” post-elettorale. La domanda politica si fa sempre meno elastica, più esigente. Se sul menù della scheda l’elettore non trova il “suo” candidato congruo, decisivo, ficcante, tende a prefigurarsi la delusione, e a scegliere l’astensione».
L’astensionista può tornare a votare in qualsiasi momento?
«In molte democrazie è così: c’è rimescolamento costante
fra elettori attivi e astenuti. Da noi c’è più inerzia: l’astensionismo tende a diventare cronico, chi non vota una volta tende a non votare più. Paradossalmente, è l’elettorato più fedele… I dati storici lo dimostrano. Il picco della partecipazione furono le politiche del ’76, quando la paura del “sorpasso” del Pci sulla Dc riempì i seggi. Dal ’79 in poi, però è calata costantemente, senza altalene. Ma è possibile che un populismo più aggressivo di quelli che conosciamo possa riuscire a invertire la tendenza».
Chi è l’astensionista medio?
«L’astenuto era tradizionalmente anziano, donna e giovane. A partire dagli anni Novanta, la quota dei giovani è cresciuta più delle altre componenti. Il movimento Cinquestelle è riuscito solo a rallentare la tendenza fra i giovani, ma in modo non permanente, tant’è che alle amministrative, che sono elezioni meno “potenti” delle politiche, lo scivolamento nel non voto è ripartito».
Tuttavia, secondo lei, anche questo non-voto sta diventando politicamente consapevole di se stesso.
«Gli astensionisti, a differenza degli astenuti, vogliono “dire” la loro scelta. Lanciano messaggi e si attendono di leggere risposte, se non altro per confermare di avere avuto ragione. Sono cittadini sempre meno marginali e socialmente deboli, il baricentro geografico dell’astensione emigra al centronord, quello anagrafico verso i giovani, quello sociale verso le classi colte e benestanti. L’astensione è uno degli elementi della fluidità politica, accanto a un elettorato attivo che alle ultime politiche ha cambiato scelta in quattro casi su dieci».
Proporrebbe allora di sostituire, nei risultati elettorali, le percentuali sui votanti con quelle sugli elettori?
«Le percentuali descrivono solo i rapporti di forza. Dovremmo cominciare a parlare di cifre assolute, è questa la misura del consenso reale dei partiti».
Non è più vero che “chi non vota non conta”?
«L’astensionismo conta eccome. Dal suo apparente silenzio minaccia i partiti, li spaventa, li domina. Sono gli astensionisti, ormai, che decidono chi vince e chi perde. Sono loro che dettano l’agenda, sono i nuovi protagonisti della scena politica».

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Roberto D’Alimonte “URNE VUOTE? NON È UN MALE” , di CONCETTO VECCHIO
Professor D’Alimonte, lei sostiene che il calo dei votanti non è per forza un male.
«Un alto livello di partecipazione non è necessariamente sinonimo di buona democrazia. Prenda il sindaco di Londra, Johnson: è stato eletto con un’affluenza del 38 per cento, quello di New York, Bloomberg, per tre volte con una percentuale di votanti al di sotto del 40 per cento. Da noi alle ultime politiche ha votato il 75 per cento, 15 punti in meno rispetto al 1979, quando è iniziata la parabola discendente della partecipazione al voto, ma ancora 5 punti in più rispetto alle ultime politiche in Germania, dieci in più rispetto all’elezione di Cameron in Inghilterra e sedici in più rispetto alle politiche del 2012 in Giappone».
Ma da noi l’astensione è sempre stata vista come un fenomeno negativo.
«Il voto era obbligatorio. C’è questo imprinting che risale al ’48, quando la Dc, preoccupata della possibile affermazione dei comunisti, enfatizzò il dovere delle urne, specie tra i ceti popolari e i contadini, con la minaccia che il mancato voto sarebbe stato registrato sul certificato di buona condotta. Nei piccoli paesi meridionali i nomi dei non votanti finivano addirittura esposti negli albi comunali».
Quali sono gli altri motivi del calo della partecipazione?
«La fine delle ideologie, con la scomparsa dei partiti di massa; l’invecchiamento della popolazione, i vecchi non vanno a votare; la crisi economica, che ha alimentato rabbia e protesta, ma allo stesso tempo ha privato la classe politica delle risorse per alimentare il voto di scambio. Le chiedo: la partecipazione frutto del voto di scambio era buona o cattiva? Alle ultime regionali solo il 13% dei lombardi ha espresso una preferenza, contro l’84% dei calabresi. Ora non mi pare che la qualità della democrazia in Lombardia sia minore che in Calabria».
Quindi oggi va a votare chi è davvero motivato?
«È motivato diversamente. Ad esempio a livello locale conta molto la spinta di votare i candidati che si conoscono, che danno affidamento. Il che spiega perché Grillo non sfondi nelle amministrative. Siamo diventati più laici, il che comporta che il voto è diventato più fluido, più volatile, e questo non riguarda solo gli spostamenti tra i partiti, ma anche l’astensionismo, che è determinato dal ciclo economico e politico, ma anche dalle persone in campo. La personalizzazione è un dato di fatto con cui bisogna fare i conti. Ci dobbiamo abituare ad un astensionismo che salirà e scenderà a seconda delle circostanze».
Quindi quel 45 per cento di votanti a Roma sta indicare che Alemanno e Marino siano stati percepiti come candidati deboli?
«La mia sensazione è che né Alemanno né Marino erano sufficientemente appealing. Del resto su Alemanno c’erano sondaggi che testimoniavano uno scarso gradimento per il suo operato».
Ma c’è una soglia sotto la quale l’astensionismo diventa allarmante?
«Beh, se andasse a votare solo il 10% bisognerebbe porsi delle domande, ma un sindaco eletto con il 45% dei voti da un punto di vista funzionale è pienamente legittimato, e lo dimostrano gli esempi stranieri che le ho fatto».
Grillo ha ballato una sola stagione?
«È presto per dirlo. Dopo le politiche, in cui ha toccato l’apice, grazie agli errori fatti dagli altri partiti, in particolare dal Pd, a cui ha sottratto tanti voti insieme alla Lega, è cominciata la discesa, ma non sappiamo ancora dove si fermerà».

La Repubblica 13.06.13