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"L’occasione da non perdere", di Claudio Sardo

Roma torna a sinistra. E i candidati-sindaco del Pd vincono in tutti i Comuni capoluogo chiamati alle urne. Senza le qualità di Ignazio Marino, senza la sua capacità di allargare la coalizione a tanti «irregolari» come lui, la pessima stagione di Gianni Alemanno non sarebbe stata chiusa con un verdetto così drastico.

Ma il risultato di ieri ha un’evidente valenza nazionale. Ci sono dentro i meriti personali di Emilio Del Bono a Brescia, di Giovanni Manildo a Treviso (che ha espugnato il «regno» di Gentilini), di Pasquale Cascella, firma storica de l’Unità, a Barletta, di Carlo Capacci a Imperia, di Bruno Valentini a Siena, di Emilio Gariazzo a Iglesias, di Leonardo Michelli a Viterbo, di Paolo Foti ad Avellino, di Simone Uggetti a Lodi, di Valeria Mancinelli ad Ancona. C’è il valore di Enzo Bianco, che tornerà ad essere il primo cittadino di Catania, dopo aver anche lui sconfitto clamorosamente un sindaco uscente di centrodestra. Tuttavia, non era mai accaduto che in una tornata amministrativa il risultato fosse così univoco. Il Pd ha vinto ovunque. Ha vinto nelle aree tradizionalmente di sinistra come nelle fortezze della destra. Ha vinto al Nord, al Centro e al Sud. Ha vinto nei Comuni maggiori, ma ha prevalso anche in quelli più piccoli. Almeno oggi sarà difficile dire che si è vinto «nonostante il Pd», ha sottolineato ieri Pier Luigi Bersani, che di questo successo ha fatto la semina e poi ha patito il fuoco amico, non meno degli errori e dei limiti espressi dal corpo collettivo dei democratici.

Ovviamente, riconoscere il valore nazionale del risultato di ieri non vuol dire sottovalutare la fragilità del contesto, né la crisi di sistema che ne fa da sfondo. Al ballottaggio hanno votato meno della metà degli aventi diritto. E questa astensione-record non ha nulla di ordinario. Esprime una sfiducia diffusa, un senso di paura e di impotenza, persino una rabbia sociale: e quando l’insofferenza tocca questi livelli, è in pericolo la stabilità stessa delle istituzioni. C’è un’area vasta di cittadini esposta ad avventure populiste o autoritarie: la storia insegna, e i casi di Berlusconi e Grillo, per quanto diversi tra loro, testimoniano che una simile crisi di fiducia può forzare anche oggi i canoni della democrazia rappresentativa.

Il Pd ha stravinto queste elezioni perché la base degli elettori si è ristretta. Questo è un dato ineliminabile che costringe il Pd a «restare con i piedi per terra». I cittadini hanno offerto al centrosinistra una grande opportunità. Ma va colta con umiltà e coraggio. I cittadini-elettori hanno individuato nel Pd e nel centrosinistra le sole forze di governo plausibili, la sola cerniera dell’unità del Paese. Tanti hanno bussato alla porta del Pd e dei suoi candidati-sindaco perché non sapevano a chi altro rivolgersi. E lo hanno fatto con spirito critico: hanno posto una domanda di governo, ma al tempo stesso di profondo rinnovamento. Nei contenuti, nei metodi, nelle classi dirigenti. Rinnovamento non è vuoto nuovismo, non è parlar d’altro. È costruire un tempo migliore: è ricostruire una speranza nel mezzo di una crisi che toglie speranze. Marino ha detto di sè e degli altri sindaci che sono «una squadra». Ecco l’altra dimensione necessaria, e purtroppo finora carente nel Pd: è ora di lavorare in squadra. Di divisioni personalistiche non ne possiamo più. Il congresso prossimo venturo deve consentire una battaglia aperta sui progetti per l’Italia di domani, ma deve mettere fuorigioco le rivalità ormai patologiche tra notabili.

Non è vero che Berlusconi e il centrodestra sono in ascesa. Berlusconi non ha mai superato il collasso strategico seguito alla fine del suo governo. Non ha più un progetto per l’Italia. Non ha più un partito, perché lui stesso ne ha impedito l’evoluzione democratica. Non ha più neppure l’ambizione di guidare il Paese, come dimostra la dissoluzione dell’«asse del Nord» con la Lega. Vuole condizionare il governo, vuole sedere nel cda per proteggere il più possibile i suoi spazi. Altro che dettare l’agenda del governo Letta! La potenza di Berlusconi sta solo nelle fobie di un centrosinistra incerto sul proprio ruolo.
Non sappiamo quanto durerà il governo Letta. Speriamo che duri il tempo necessario per adottare misure straordinarie per il lavoro, per riformare la forma di governo (nel senso di un rafforzamento del governo parlamentare e, certo, non in direzione di un confuso semi-presidenzialismo), per varare una nuova legge elettorale. Tuttavia va detto che, se il Pd non avesse dato vita al governo e non si fosse assunto la responsabilità di guidarlo, non ci sarebbe stato questo risultato elettorale. Se il Pd fosse fuggito dopo il disastro delle presidenziali, a quest’ora probabilmente racconteremmo la storia di una spaventosa alternativa tra il populismo di Berlusconi e quello di Grillo.

Il Pd può e deve incidere maggiormente sull’azione del governo, deve guidarlo, senza superbia ma anche senza balbettìi. Berlusconi è stato punito perché ormai ha solo la tattica, senza strategia. Grillo è stato punito perché ha scommesso sullo status quo favorendo il Cavaliere anziché un cambiamento possibile. Il Pd deve ritrovare una «connessione sentimentale» con il suo popolo. A partire proprio dai sindaci e dai governatori. Il congresso è un’occasione da non perdere per dare al rinnovamento promesso contenuti all’altezza delle sfide storiche. Ma intanto il Pd non dimentichi i problemi concreti, il governo reale, le sofferenze e le domande di chi guarda con scetticismo alle istituzioni e dice: questa è l’ultima volta…

L’Unità 11.06.13

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