«Ora vi rivelo un retroscena», ha detto ieri a Firenze Eugenio Scalfari nel presentare la videointervista con Giorgio Napolitano. «Poco prima della scadenza del suo mandato, andai a trovarlo al Quirinale per proporgli di venire a Repubblica delle Idee, e lui accettò, nella convinzione che non sarebbe stato più presidente». Ma in quello stesso incontro, Scalfari gli chiese la disponibilità a farsi rieleggere. «Ero latore di un messaggio che proveniva da due alte cariche del partito democratico, dunque aggiunsi: ambasciatore non porta pena. Il presidente mi lasciò parlare e poi mi disse: no, tu la pena ce l’hai, perché non sei un ambasciatore neutrale. E mi spiegò dettagliatamente le ragioni per cui non voleva essere rieletto ». Poi le cose sono andate diversamente e nell’intervista Napolitano ripercorre i passaggi più delicati. Il dramma di un Parlamento «impotente» e la sua scelta di accettare il bis. Fino ad arrivare ad una fase, quella delle larghe intese, in cui le riforme «devono essere fatte», a partire dalla legge elettorale. Poi «ciascuno riprenderà la sua strada».
Un gremito Salone dei Cinquecento ha accolto ieri Scalfari con una standing ovation. «Beh, i vecchi si applaudono», sorride il fondatore di Repubblica. «Non tutti», chiosa al suo fianco Claudio Tito nel presentare l’intervista. Ecco ampia parte del dialogo tra Napolitano e Scalfari, tratto dal video proiettato alla festa di Repubblica.
Presidente Napolitano, mi piacerebbe ripercorrere la sua biografia politica e intellettuale: da dirigente del Pci a uomo delle istituzioni, fino a ricoprire la più alta carica. E vorrei cominciare da una frase che lei, parafrasando Benedetto Croce, pronunciò nel ‘95 al Gabinetto Vieusseux: «Perché non
possiamo non dirci liberali».
«Sì, sui valori del liberalismo si fonda qualsiasi prospettiva di trasformazione di una società. Ma prima devo raccontarle il mio lento avvicinamento al Pci, a cui m’iscrissi nel dicembre del 1945, dopo un percorso non privo di dubbi. A Napoli, all’Università, ero entrato in contatto con un gruppo di studenti molto brillanti, che poi avrebbero lasciato un segno in campo letterario e artistico, da Raffaele La Capria a Francesco Rosi, da Giuseppe Patroni Griffi a Luigi Compagnone. Frequentavamo il Guf, ossia l’organizzazione universitaria fascista dove si formarono anche molti antifascisti e molti comunisti».
Anche io frequentavo il Guf, da cui fui espulso. Mi consideravo un giovane fascista, ma il fatto che ad espellermi fosse stato uno dei capi del Pnf, il vicesegretario Carlo Sforza, mi fece venire dei dubbi. E lì cominciò il mio viaggio attraverso il fascismo.
«Qualcuno tra gli studenti aveva un interesse più spiccatamente politico, così cominciò a circolare il Manifesto dei comunisti, pubblicato in calce alla Concezione materialistica della storia di Antonio Labriola, nell’edizione Laterza con la celebre aggiunta di Benedetto Croce sulla critica del marxismo in Italia. Nelle nostre accese discussioni avevamo bisogno di un antagonista e quindi aprimmo le porte a un giovane fascista di cui ci fidavamo. Si chiamava Ruggiero Romano e sarebbe diventato uno storico importante. Questo per dirle come mi avvicinavo a quelle idee, molto da lontano. Quanto ai liberali, mio padre è stato liberale prima del fascismo. Sotto il regime visse appartato, esercitando la professione fino alla fine degli anni Trenta senza iscriversi Pnf. Poi finì per prendere la tessera. Era un importante avvocato penale della generazione di Enrico De Nicola, di cui era molto amico».
Nel marzo del 1944, dopo un lungo viaggio dall’Unione Sovietica, Palmiro Togliatti arriva a Napoli. E a sorpresa annuncia a un esterrefatto Cacciapuoti, segretario della federazione, di voler fare un accordo con Badoglio.
«Naturalmente anche io ne ebbi notizia – al cinema Modernissimo ci fu una grande manifestazione ma ero ancora distaccato dal partito. Nel gennaio di quell’anno avevo cominciato a scrivere su una rivistina,
Latitudine, che venne subito bocciata dalla federazione comunista per le citazioni eretiche di Gide e Malraux. Una parte di noi ne rimase sconcertata. Così mi ritirai nel mio guscio, andando a lavorare per sei mesi a Capri presso l’American Red Cross, la Croce Rossa americana. In autunno, presi a collaborare al quotidiano social-comunista La voce, ma al partito mi sarei iscritto un anno più tardi. Avevo ancora molti dubbi. La scelta arrivò alla fine del 1945, dopo aver sentito Giorgio Amendola al congresso provinciale. Una scelta dettata non da maturazione ideologica, piuttosto da un impulso morale. Napoli era una città stravolta dalla guerra, dalla occupazione, dalla miseria e dal degrado. Qual era il partito che più aveva combattuto contro il fascismo e ora si schierava per la liberazione del resto d’Italia? E qual era il partito che
più si mescolava con il popolo? Solo più tardi avrei cominciato ad avvertire le prime contraddizioni».
Qual è il suo giudizio storico su Togliatti?
«Aveva profondamente dentro di sé l’idea di un partito nazionale, dal profilo autonomo, ma allo stesso tempo non si staccò mai dalla guida di Stalin. Era dentro quell’universo, anche con le sue degenerazioni, da cui più o meno poteva tenersi lontano – non aveva nessuna funzione di direzione in Unione Sovietica – però quella fu la sua storia».
Una figura a lei vicina fu quella di Giorgio Amendola. Com’erano i vostri rapporti?
«Era un personaggio di grandissima umanità, capace di forte dissenso da Togliatti e allo stesso capace di rigorosa intransigenza in difesa del partito. Lo ricordo nel famoso Cinquantasei, quando i carri armati sovietici invasero l’Ungheria. Ci furono diverse manifestazioni contro le sedi del Pci, ma lui sapeva fronteggiare la protesta, con grandissimo coraggio anche fisico».
Un anno dopo Antonio Giolitti, altro suo grande amico, lascerà il partito perché non ne condivideva le scelte sui fatti d’Ungheria.
«Sì, ma la sua grandezza morale fu che uscì dal Pci senza mai diventare anticomunista. Fece un meraviglioso racconto del suo rientro dal congresso che aveva sancito ufficialmente la solidarietà con l’Urss. Insieme a lui, c’era Giuseppe Di Vittorio, profondamente ferito per come l’avevano trattato. Giolitti lo ritrasse singhiozzante, in preda a una crisi emotiva. Naturalmente avevano ragione Giolitti e Di Vittorio. E tanti anni dopo io ho avvertito il bisogno di dirlo ad Antonio pubblicamente: avevi ragione tu, io ero in torto. Mi sembrò un debito da pagare».
Questo le fa molto onore. Ora vorrei chiederle del suo rapporto con Enrico Berlinguer.
«Eravamo amici, legati anche da un rapporto personale, che includeva le famiglie. C’erano però delle differenze. Berlinguer era un uomo forte del partito, là convogliava tutte le sue energie politiche e intellettuali. Cominciò la vita parlamentare tardi, nel 1968, e secondo lo stile proprio del partito, ossia in modo abbastanza distaccato. Io invece arrivai alla Camera da giovane – nel 1953 avevo 28 anni – e subito mi immersi nel lavoro delle commissioni. Questo forse aiuta a capire anche il mio particolare percorso dentro le istituzioni ».
Quando nacque Repubblica, nel gennaio del 1976, noi ci mostrammo contrari al compromesso storico, favorevoli invece alla linea dell’alternativa democratica.
«Nel 1973, dopo il colpo di Stato in Cile, io fui solidale con Berlinguer nella sua proposta politica. E tre anni più tardi partecipai alla delegazione che incontrò Aldo Moro. Ma già in quel periodo cominciò a delinearsi tra noi una diversità di vedute. Io ero dell’idea che l’accordo con la Democrazia Cristiana fosse necessario per far fronte alle due minacce maggiori, l’inflazione galoppante e il terrorismo. Le condizioni erano per noi molto impervie: non si trattava di guidare un governo in cui ci fosse anche l’avversario. No, si trattava invece di accettare la guida dell’avversario e di restare fuori. L’obiettivo era superare la conventio ad excludendum.
Ma bisognava dirlo con chiarezza, senza dissimulare tutto questo dentro un involucro ideologico che teorizzava l’introduzione di elementi di socialismo dentro la società italiana. In sostanza, quella politica fu caricata di elementi un po’ mitici».
Presidente, ora una domanda sulla Costituzione. La Carta stabilisce che il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio e, su sua proposta, nomina i ministri. Ma non parla di consultazioni. Il presidente può fare tutte le consultazioni che vuole, ma non è obbligato dalla Carta. Lei invece le ha sempre fatte.
«Le consultazioni sono una prassi che deriva dalla Costituzione. Non c’è stato presidente che non vi abbia fatto ricorso. Il primo fu Luigi Einaudi».
Nell’agosto del ’53, Einaudi nominò Giuseppe Pella presidente del Consiglio, ma senza alcuna consultazione.
«Successivamente però ci sarebbe stato un incidente sulla nomina del ministro dell’Agricoltura e Pella fu costretto alle dimissioni. Al Quirinale ho trovato il commento di Einaudi su quella vicenda, che dice più o meno così: è dovere del Presidente non permettere che i poteri assegnatigli dalla Costituzione vengano trasmessi ai successori con incrinature. L’ho fatto incorniciare nel mio scrittoio».
Quando mancavano pochi giorni alla scadenza del suo primo settennato, io venni a trovarla e le chiesi di rimanere. Ma lei mi spiegò le ragioni del suo rifiuto. Però poi sono accaduti degli eventi che l’hanno costretta a restare.
«Ero profondamente convinto di dover lasciare,
ma poi non ho potuto dire di no. E’ stato un momento terribile. Abbiamo assistito a qualcosa che non avevamo mai visto in passato. Io ho partecipato a diverse elezioni presidenziali, e ce ne sono state alcune assai combattute. Pertini fu eletto a schiacciante maggioranza, ma al sedicesimo scrutinio. Per Leone – con un Parlamento spaccato in due – arrivammo al ventitreesimo scrutinio. Però non avevamo mai avvertito quel senso di impotenza del Parlamento che abbiamo vissuto nel tumultuoso succedersi delle ultime elezioni. E allora ho detto sì per senso delle istituzioni».
Il Paese era diviso, si avvertiva la necessità di una continuità istituzionale.
«Continuità istituzionale non significa conservare l’esistente. Io sono un tenace assertore della necessità che, sul terreno delle regole e delle riforme istituzionali, gli opposti schieramenti riescano a trovare un impegno comune. Ma le riforme devono essere fatte. Naturalmente un’alleanza politica è sempre un’alleanza a termine, in particolare quando è un’alleanza eccezionale, come fu quella tra il ‘76 e il ‘79, e come è quella attuale. Ma rimango sbalordito quando, dopo appena quaranta giorni dalla formazione del governo, sento serpeggiare la preoccupazione che questa alleanza possa durare troppo. Ora il problema è far vivere il governo per un’esigenza minima di stabilità istituzionale e di sopravvivenza del paese. Poi ciascuno riprenderà la propria strada. Ma sulle riforme bisogna trovare il consenso più largo».
A cominciare dalla legge elettorale.
«Non ho alcuna intenzione di rivivere, da presidente della Repubblica, l’incubo di quei mesi durante i quali, nella commissione Affari Costituzionali del Senato, si è pestata l’acqua nel mortaio e non si è stati capaci di partorire alcuna riforma elettorale. Riforma che pure tutti i partiti giuravano di voler fare… Bisogna quindi mettersi a lavoro, possibilmente con discrezione, evitando ciascuno di sventolare la propria bandiera».
La Repubblica 10.06.13