Sembrava che tutti fossero d’accordo sul superamento dell’indecente modello elettorale, non a caso definito Porcellum. Ora, il Pdl pone come condizione e contropartita l’abolizione del regime parlamentare e il passaggio al semipresidenzialismo. L’aspetto ricattatorio è fuori discussione. Ma, al di là delle circostanze, bisogna riconoscere che il presidenzialismo è sempre stato per la destra la madre di tutte le riforme costituzionali, essendo basato sul principio di un potere «forte», concentrato in un leader, più o meno carismatico, direttamente eletto dal popolo.
A maggio di un anno fa Berlusconi e Alfano avevano avanzato la proposta del semipresidenzialismo come «l’atto fondativo della terza Repubblica». E Giovanni Sartori scriveva: «Improvvisamente Berlusconi (che di fiuto ne ha da vendere e che non si rassegna certo a stare in panchina) tira fuori dal cappello il modello francese». L’aspetto più intrigante è che la destra italiana non ha mai guardato al modello presidenzialista per eccellenza, vale a dire, quello americano, vecchio di più di due secoli e punteggiato da una storia di grandi presidenti. Qual è il motivo di questo mancato interesse? Molto semplicemente, la ragione sta nel fatto che negli Stati Uniti è stata adottata una radicale divisione dei poteri, secondo il paradigma del costituzionalismo moderno.
I poteri del presidente sono bilanciati dagli invalicabili poteri del Congresso. Non a caso, il sistema è congegnato in modo tale che raramente la maggioranza popolare che elegge il presidente coincide con la maggioranza dei due rami del Congresso. La ragione è nella de-sincronizzazione delle cadenze elettorali, essendo la Camera dei Rappresentanti rinnovata ogni due anni e, in coincidenza, il Senato per solo un terzo dei suoi membri in carica per sei anni. Non è, pertanto, un caso che i sacerdoti di un potere centrale forte si siano costantemente orientati sul semi-preisenzialismo, che, contrariamente a quanto lascerebbe intendere il prefisso «semi », è tendenzialmente un super-presidenzialismo, nel quale il presidente, secondo il sistema riformato vigente, è eletto contestualmente all’Assemblea nazionale, sia pure con un breve scarto di tempo. Questo consente, in linea generale, al presidente di nominare il capo del governo, automaticamente confermato dalla maggioranza parlamentare, normalmente coincidente con la maggioranza che lo ha portato all’Eliseo. Il suo potere è di vita e di morte nei confronti sia del governo che del Parlamento che pu ò sciogliere «ad libitum».
La Quinta Repubblica è, in effetti, un regime eccezionale nel quadro dei regimi democratici occidentali, non a caso nato da circostanze eccezionali. Alla fine degli anni Cinquanta la IV Repubblica, dopo aver subito una dura sconfitta nella guerra coloniale in Indocina, si trovò minacciata da un colpo di stato dei generali che stavano conducendo, senza successo, la sporca guerra d’Algeria. È in queste condizioni di emergenza storica che fu chiamato alla testa del governo il generale Charles De Gaulle, che si era ritirato in una sperduta residenza lontana dalla capitale, il piccolo villaggio di Colombey-les-Deux-Eglises e.che, godendo, come capo della resistenza antifascista, di un ineguagliabile prestigio nazionale, era l’unico statista in grado di scongiurare la rivolta dei generali, e di aprire la strada all’indipendenza dell’Algeria. Da queste circostanze prese corpo nel 1962 la riforma costituzionale approvata da un referendum popolare conclusosi con una maggioranza straripante a favore della V Repubblica impersonata da Charles De Gaulle.
Quella forma eccezionale di presidenzialismo non ha trovato in Europa nessuna imitazione di rilievo, se si esclude la Russia di Putin. Secondo la costituzione russa, infatti, il capo dello Stato, eletto con voto popolare, nomina il capo del governo, confermato dalla Duma, la cui maggioranza, dopo la travagliata transizione di Eltsin, ha sempre coinciso con quella che ha eletto il presidente (prima Putin, poi Medvedev, poi ancora Putin).
Non è inverosimile che Berlusconi, nel suo costante disprezzo per la repubblica parlamentare disegnata dalla Costituzione italiana, abbia avuto presente, non senza invidia, l’incontrastato potere dell’amico Vladimir. Ma non si vede, con tutta la buona volontà, come possa essere possibile che il più occasionale di tutti i possibili governi sperimentati in Italia un governo fondato su «larghe intese» che ciascuno dei due principali partner considera provvisorie e delle quali liberarsi appena possibile possa avventurarsi su un percorso, non più di nomale riforma elettorale che ci liberi dall’indecenza del porcellum o che, più ambiziosamente poterebbe essere di tipo tedesco ma addirittura verso uno stravolgimento della costituzione e della democrazia parlamentare, che è il regime principe delle democrazie europee.
L’Unità 10.06.13