Dopo gli anni neri di Alemanno, Roma può voltare pagina. Il ballottaggio di oggi e domani ha un grande valore politico: per i cittadini della capitale anzitutto, che meritano di avere un’amministrazione capace di progettare il futuro, di rianimare imprese e servizi, di ricostruire coesione sociale. Ma il governo di Roma è anche un pezzo importante del governo nazionale. Quando Roma è stata capace di trainare e di liberare risorse, ne ha beneficiato l’intero Paese.
Negli ultimi anni invece Roma è stata l’immagine del declino nazionale: e il discredito del governo della città è diventato un moltiplicatore di sfiducia e di spinte centrifughe. Ignazio Marino rappresenta ora una speranza. Di ricostruzione, non solo di cambiamento nella dimensione civica. In questo tempo di profonda crisi e di stallo istituzio- nale, è in gioco la possibilità di rinnovamento della politica, è in gioco la rigenerazione del circuito democratico, è in gioco la stessa unità nazionale, di cui Roma può essere collante se non viene percepita come un peso.
Marino è una personalità originale nel centrosinistra. Il suo carattere «eretico» ha suscitato simpatia e favorito la partecipazione al suo progetto. Se, come speriamo, i romani lo sceglieranno, diventerà da sindaco un protagonista di quella sinistra innovativa e plurale che, sola, può tenere insieme l’Italia e al tempo stesso sospingerla fuori dal precipizio della recessione e della paura. È il ruolo politico che già svolgono Pisapia, Renzi, Fassino, Merola, Emiliano e i tanti primi cittadini che nelle loro città tengono quotidianamente insieme aspirazioni al cambiamento e risposte concrete alle domande dei cittadini. Il centrosinistra, Pd in testa, non avrebbe resistito alle sconfitte, senza queste radici nelle città e nelle Regioni: sono la linfa, e talvolta la riserva critica.
E ora il Pd non può che ripartire dalle città. Oggi, con i ballottaggi, si svolgerà anche il primo turno delle comunali siciliane, dove da un anno Rosario Crocetta ha impresso un cambio di passo. Il buongoverno si misura nelle contraddizioni della crisi, nel vivo dei bisogni materiali. Il primo turno amministrativo ha prodotto segnali d’allarme – a partire dal clamoroso record di astensione – ma anche un incoraggiamento al Pd. Che viene chiaramente percepito nella crisi come il solo ancoraggio di responsabilità e di governo. Non era mai accaduto che i candidati di uno stesso partito fossero in testa in tutti i Comuni capoluogo. Stavolta è accaduto. Sono candidati diversi per sensibilità e storia personale: hanno fin qui prevalso per le loro qualità civiche e per il loro radicamento.
Ma c’è qualcosa di più. Nei cittadini che sono andati al voto ci sono domande forti al centrosinistra, solo in apparenza contraddittorie. Si chiede di cambiare rotta, di aprire una nuova stagione politica nel Paese.
Ma si chiede anche di non fuggire dalle responsabilità e dalla realtà. C’è un Paese che soffre, che è arrabbiato, che ha paura, che non capisce quale sarà il proprio futuro, e per questo vuole essere governato nella crisi. Vuole che qualcuno risponda al telefono, vuole poter bussare e vedersi aprire la porta, vuole che le emergenze siano affrontate e non solo denunciate.
Anche se domani il risultato fosse il migliore possibile, il Pd farebbe bene a contenere i festeggiamenti. I nodi più difficili restano da sciogliere. E i consensi ricevuti sono molto esigenti. Ma una lezione è arrivata: la politica del tanto peggio tanto meglio non sempre paga, non sempre si può lucrare sulla disperazione altrui e sulle cose che non vanno. C’è un momento in cui bisogna assumersi delle responsabilità. In cui bisogna sporcarsi le mani. La parziale rivincita del Pd al primo turno non sarebbe stata possibile senza la credibilità dei progetti dei candidati-sindaci del centrosinistra. Ma non sarebbe stata possibile neppure senza l’impegno nel governo nazionale. Il governo Letta con il Pdl non è ciò che il Pd voleva. Ma – pur in un Parlamento senza maggioranza – il Pd ha deciso di mettere la sua forza al servizio di un’emergenza e di cambiamenti circoscritti ma possibili. Se avesse mandato tutto all’aria, se si fosse fatto catturare dalla depressione e avesse fatto precipitare il Paese al voto anticipato, forse oggi saremmo davanti ad uno spaventoso bipolarismo tra Berlusconi e Grillo.
Invece il Pdl cresce nei sondaggi ma cala nelle elezioni vere. E i Cinque stelle sono in flessione ovunque. Segno che la crisi politica della destra è strutturale, e non è vero neppure che il Cavaliere detta l’agenda. Berlusconi balbetta, non ha più alcun progetto per il Paese: gioca di rimessa e cerca al più di garantirsi un potere di condizionamento. Per parte sua, Grillo ha scommesso tutto sulla maggioranza Pd-Pdl, pensando di trarre ancora dividendi dal declino del Paese, come quegli speculatori che giocano sul crollo delle Borse. Ma a molti suoi elettori non è andato giù che Grillo abbia oggettivamente lavorato per Berlusconi.
Il Pd ha davanti una sfida difficile. La sua responsabilità è che non può fallire, perché l’Italia rischia di non avere alternative. Ha grandi risorse nei sindaci. Ma ha anche tanti limiti, tante lacune. Il congresso sarà una prova di maturità. E non da meno lo sarà il governo, che ha bisogno di una solida guida del centrosinistra per reggere agli sconclu- sionati strappi berlusconiani: il lavoro resta la priorità delle priorità; e le riforme istituzionali necessarie passano dal rispetto dei principi costituzionali. Non si arriverà a nulla sulla strada del presidenzialismo, mentre invece il risultato positivo è possibile rafforzando il ruolo del primo ministro, superando il bicameralismo paritario, riducendo il numero dei parlamentari attraverso l’elezione di secondo grado alla Camera delle Regioni. Il Pd si faccia sentire, anche durante il proprio congresso.
L’Unità 09.06.13