Tutti invoca le riforme. Molto bene. Ma chi abbia una certa consapevolezza del disastro di dimensioni storiche che incombe sull’Italia non può non porsi qualche domanda. Ascolto proposte vaghe su nuovi modelli di Stato e mi chiedo se una certa classe dirigente che poi, in definitiva, è tra i maggiori responsabili di questo disastro, abbia capito con che cosa deve fare i conti. Detto in poche parole, si tratta del problema che ha posto il Governatore della Banca d’Italia. Cioè del fatto che l’Italia decade perché (cito) «non siamo stati capaci di rispondere agli straordinari cambiamenti geopolitici, tecnologici e demografici degli ultimi 25 anni».
Non è poco. Lo penso e lo scrivo da tempo. Perciò mi si scuserà se, pur non rifiutando la discussione su nuovi modelli costituzionali, non riesco a convincermi che la ragione di questo autentico disastro sta nelle lungaggini del sistema parlamentare. Io penso invece che è l’intera struttura non solo statuale ma sociale dell’Italia che non ha retto e non regge. E la colpa di ciò sta nel fatto che la sfida della europeizzazione richiedeva un grande disegno di riforma che il ceto politico non è riuscito nemmeno a concepire. Sapevamo tutto sulla differenza tra sistema francese e sistema tedesco ma sapevamo poco sulla società italiana.
Noi come andiamo al Congresso? Al solito, solo con una lotta tra chi comanda e l’ennesima disputa sulle regole? Stiamo attenti. Gli italiani stanno ponendo anche al Pd una domanda grossa che riguarda la nostra stessa esistenza. Il Pd a che serve? E prima ancora: a che serve la politica? Io penso che è stato giusto sostenere un governo di eccezione ma non è dissolto il rischio che l’ondata di discredito della politica travolga l’intero sistema politico e che quindi non Berlusconi ma grandi masse pensino che è giunto il tempo di liquidare la democrazia dei partiti. Starei perciò molto attento a ridurre il nostro dibattito nei confini della «governabilità». Discutiamo pure di regole ma io penso che il problema vero a cui la sinistra non può più sfuggire, è il problema della «rappresentanza». Forse sono troppo vecchio e mi sbaglio. Ma il bisogno che sento in modo assillante è quello di ritrovare le vie della rappresentanza dei processi sociali e intellettuali più profondi. I quali esistono e sono questi che chiedono una nuova guida.
Qualcosa di analogo a ciò che fecero ai loro tempi i padri della sinistra democratica quando per uscire dalla subalternità rispetto ai poteri e alle idee allora dominanti dettero agli sfruttati non solo solidarietà ma una soggettività politica. E ciò attraverso la creazione di nuovi straordinari strumenti cognitivi e di lotta: il suffragio universale, il sindacato, il partito politico di massa. Cose grandi. Così oggi. Il bisogno che abbiamo è quello di dare una base forte, reale a un grande progetto politico in grado di far uscire l’Italia da una crisi così profonda, una crisi che non può ridursi all’economia essendo so- prattutto, ed essenzialmente, la crisi della vecchia identità storica e geopolitica della nostra nazione. Una crisi quindi, che non è separabile da una riflessione sulla necessità di mettere in campo non tanto un nuovo Quirinale che a me sembra vada benissimo ma sopratutto un forte soggetto politico che non c’è. Ricordiamoci che al fondo, la nostra è anche una crisi della sovranità: chi comanda, chi è il sovrano, cosa c’è al posto del vecchio Stato nazione. Stiamo attenti a come discutiamo su queste cose.
Le vecchie dispute sul Partito non servono. Sono le cose nuove del mondo che ci chiedono un partito grande e diverso. Io penso che abbiamo bisogno di un partito «largo», come del resto il Pd venne concepito, un partito dove convivono e si confrontano tra loro esperienze e culture diverse. Ma non un semplice contenitore di giochi politici, bensì una comunità umana che possa essere abitata anche dalle classi subalterne, cosa che non è oggi. Per soggetto politico, questo intendo: un luogo dove si elabora una visione del futuro, un progetto. E quindi dove si forma quel coagulo di forze, di intelligenze e di valori capaci di condizionare la vita sociale e morale di tutti gli italiani. Il tema del partito è inseparabile dal tema dell’Italia dal momento che l’Italia è posta di fronte alla sfida di ridefinire la sua vecchia identità nazionale. Ed è esattamente ciò che chiede un nuovo pensiero politico e una nuova soggettività (qualcosa di più che dimezzare il numero dei parlamentari: cosa ottima).
Di qui l’enorme responsabilità che pesa sul Pd, la sola forza che potrebbe adempiere a questo compito. A me sembra questo il tema del congresso. Il «nuovo» è restituire sovranità alla politica e quindi alla democrazia. È aprire una lotta contro la mostruosa degenerazione oligarchica della vita economica che sta disintegrando la coesione sociale. Dove andiamo se si logora questa fondamentale risorsa? Vedo anch’io la necessità di riformare processi costituzionali farraginosi e insostenibili (due Camere, le province, i costi della macchina politica, ecc). Ma fatemi capire quale nuovo rapporto tra governati e governanti sta dietro la scelta di una forma di Stato diverso dalla democrazia parlamentare, la quale – non dimentichiamolo – è stata quella grande conquista che ha consentito alle masse profonde italiane di prendere per la prima volta la parola. Discutiamo pure, ma ciò che deve essere chiaro è lo scopo.
Bisogna rafforzare la governabilità dando più potere all’uomo solo che comanda? Sono anni che il nostro dibattito ruota intorno a questa parola magica: governabilità, e in nome di questa parola si sono consumate divisioni feroci. Ma a qualcuno non viene il dubbio che se l’Italia è così mal governata non è solo perché i partiti non si mettono d’accordo sulle regole ma per il fatto che i partiti sono diventati sempre più elitari e
sempre meno capaci di «rappresentare» oltre che di «governare»? Forse è colpa anche di questo «riformismo senza popolo». Forse conta l’indifferenza per i fenomeni culturali e ideali. Forse è una certa subalternità verso l’economia del denaro fatto col denaro. Forse è tutto ciò che ha reso difficile la governabilità dell’Italia.
Governare è «guidare» una nazione, non è solo conquistare il consenso elettorale. È ridare ai partiti il ruolo loro che è proprio quello di creare il necessario tramite tra la società civile e le istituzioni, e così impedire che esse diventino gusci vuoti. Il tema del congresso è l’Italia. È come sia assolutamente urgente arrestare il disfacimento ormai in atto del sistema produttivo, delle funzioni statali, dei beni collettivi, a cominciare da quel patrimonio umano insostituibile che è il lavoro dei giovani. Altroché se bisogna riformare le istituzioni, a cominciare dall’abolire una pessima legge elettorale che non consenta agli italiani di scegliere i propri rappresentanti.
Va benissimo una commissione parlamentare che affronti le necessarie riforme costituzionali. Ma stiamo attenti che ciò non fornisca alibi per non affrontare la più grande delle questioni, quella davvero costituente che è la capacità dell’Italia di reggere alla sfida di natura storica che la obbliga a trasformarsi in una componente attiva ed essenziale della costruzione di una federazione politica europea. E così ritrovare, a questo livello, la sovranità politica perduta e quindi una riforma seria degli assetti democratici, federalismo compreso.
L’Unità 04.06.13