Proviamo a fare un esercizio di ottimismo, non fosse altro che per reagire alla malinconia delle statistiche congiunturali. Ammettiamo che, nel lunghissimo tunnel che sta percorrendo, l’economia italiana andando avanti scopra, l’una dopo l’altra, diverse monete; che queste monete tutte assieme costituiscano un tesoretto; che, usato oculatamente, questo tesoretto possa sensibilmente accelerare l’uscita dal tunnel.
Non si tratta di un’ipotesi assurda, dopo che l’Europa ci ha tolto di dosso il macigno della procedura per deficit eccessivo. È vero che Barroso ha gelato la nostra soddisfazione avvertendo che l’Italia «ha ancora un gran lavoro da fare», ma comunque siamo stati promossi e la prima moneta del tesoretto è proprio conseguenza della promozione, della minore rigidità del tetto alla spesa che ne può derivare, dalla possibilità di effettuare qualche investimento non permesso dal regime precedente.
La seconda moneta, del valore di qualche miliardo di euro l’anno, potrebbe risultare da un uso più intenso dei fondi di ricerca e dei fondi regionali europei, la terza potrebbe rendersi disponibile in autunno, dopo le elezioni tedesche, e consisterebbe in un trattamento analogo a quello ottenuto da Francia e Spagna, ossia in uno slittamento di due anni degli obiettivi per il bilancio pubblico, il che aprirebbe un polmone valutabile in almeno dieci miliardi di euro l’anno. Dall’eventuale sottoscrizione di un accordo con la Svizzera sulla tassazione dei capitali italiani investiti in quel Paese potrebbe provenire un vero e proprio gruzzoletto del valore di qualche decina di miliardi. Non va poi trascurato il notevole risparmio di interessi sul debito pubblico, derivante dalla sensibile riduzione dello spread.
Non si tratta certo di somme straordinarie. In ogni caso, però, grazie all’azione del suo predecessore, e ai sacrifici sopportati da milioni di famiglie italiane, il governo Letta, ha una marcia in più rispetto al predecessore stesso. Non deve (e politicamente non può) limitarsi a una politica difensiva; può, e deve, insieme alle forze politiche che lo sostengono, mettere a punto e realizzare una politica di sviluppo.
Di questa politica di sviluppo ancora non si vedono tracce sicure. Lo dice chiaramente il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco nelle sue Considerazioni Finali lette, com’è tradizione, alla fine di maggio dinanzi al Gotha dell’economia, della finanza e della vita pubblica italiana. Visco ha respinto vigorosamente la tendenza italiana all’autocompiacimento; pur riconoscendone la validità, ha giudicato insufficienti i progressi sinora compiuti, ha sottolineato la necessità di non disperderli e di consolidarli per avviare la ripresa. Ha parlato di risultati ancora fragili, e la fragilità della struttura economica italiana fa da sfondo a tutto il suo discorso. Ha giustamente messo in risalto il sonno italiano di un quarto di secolo, l’incapacità di rispondere a venticinque anni di cambiamenti «geopolitici, tecnologici e demografici».
In questa prospettiva, l’Italia del governo Letta assomiglia a un paziente che risvegliandosi da un lungo coma – nel quale l’ha metaforicamente rappresentata Bill Emmott in un fortunato documentario – si trova in un mondo diverso. Riuscirà a capirlo, a interagire con una realtà globale in movimento che non perde tempo ad aspettarci? La risposta deriverà in gran parte dall’uso che il governo saprà fare di questo non pingue tesoretto che si renderà disponibile gradualmente nei prossimi dodici-diciotto mesi. E nel decidere come usarlo si troverà di fronte a scelte molto scomode perché dovrà tirare da una parte o dall’altra una coperta troppo stretta.
Si preferirà ridurre (purtroppo necessariamente di poco vista la situazione delle finanze pubbliche) il costo del lavoro per tutte le imprese, come sostanzialmente chiede la Confindustria, oppure operare in maniera selettiva, aiutando, in maniera più consistente, le sole imprese che compiono determinate azioni «virtuose», ossia che investono e che assumono? Si dovrà cercare genericamente di salvare i posti di lavoro in pericolo, come chiedono il sindacato e una buona parte dell’opinione pubblica, oppure dare la precedenza alla creazione di posti di lavoro nuovi, in settori più efficienti, e favorire la formazione dei lavoratori giovani? Si preferirà ridurre le inefficienze dell’amministrazione pubblica oppure si cercherà di modificarne radicalmente la struttura, a cominciare dalla soppressione di province e tribunali?
Da un punto di vista teorico, i risultati migliori in termini di crescita si ottengono con le politiche selettive, che favoriscono i migliori e i più preparati. Quando però dalla teoria si passa alla pratica e ci si trova davanti a un impressionante panorama di decine di migliaia di imprese e di milioni di bilanci famigliari in difficoltà occorre ricordarsi che la politica non si fa a tavolino e che delle eccezioni alla selettività dovranno essere ammesse, anche se questo richiederà un tempo di ripresa più lungo. L’eccezione, tuttavia, non può diventare la regola: e la bilancia deve pendere dal lato della flessibilità, della crescita, dei giovani, del recupero dei venticinque anni perduti.
Gli italiani devono rendersi conto che nessun governo è uno sciamano, in grado di curare con qualche formula magica i mali accumulati nel nostro sonno di un quarto di secolo. E che nessun cittadino, nessuna categoria può legittimamente aspettarsi che i sacrifici li facciano solo gli altri. Solo se questa consapevolezza si diffonderà nella classe politica e nell’opinione pubblica avrà senso continuare in un’esperienza di governo all’insegna di un recupero di fiducia, solo così il tesoretto potrà essere speso bene.
La Stampa 02.06.13