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"Se perfino l’università ora è made in China", di Giampaolo Visetti

Dal ristorantino all’università. Dal barbiere low cost al manager della multinazionale. La Cina cambia volto ed esporta nel mondo anche l’istruzione del futuro. Lo sbarco in Europa non è di basso profilo: un ateneo nel centro di Londra, cuore della conoscenza nel vecchio continente, a due passi da Oxford e da Cambridge. ad aprire il campus, stile anglosassone e metodi asiatici, l’ università dello Zhejiang, tra le cinque migliori nella seconda economia del pianeta. Accordo fatto con il glorioso Imperial College, che da lunedì metterà
a disposizione le proprie aule agli insegnanti reclutati dal ministero dell’ Istruzione di Pechino. Cattedre a contratto e stipendi più ricchi rispetto alla media degli atenei inglesi: gli studenti potranno trovare docenti cinesi, ma pure di altre nazioni del mondo.
La grande novità sono i programmi: rigorosamente cinesi, con la garanzia di una laurea a prova di Oriente, l’area più concorrenziale, ricca e in crescita del secolo. Tra gli obbiettivi,
attività accademiche congiunte, ossia l’integrazione totale dei corsi dell’ Imperial College e dell’Università dello Zhejiang, gioiello della regione più industrializzata della Cina. Studenti e professori potranno muoversi tra Londra e Hangzhou, oppure seguire a distanza le stesse lezioni, come in un’unica
classe, sia in inglese che in mandarino.
È il passo successivo all’improvvisamente invecchiato “Erasmus”, la nuova istruzione ai tempi della globalizzazione. E a nessuno sfugge che Pechino sia
già oltre gli Istituti Confucio, 1780 inaugurazioni in pochi anni e in ogni continente, primo strumento per la costruzione del nuovo softpower “made in China”. Aprire università in Europa, negli Usa e presto in Africa, investendo una montagna di yuan per formare giovani stranieri, è la missione più delicata dell’“espansione culturale” varata dai leader comunisti. Ambizione: cambiare l’immagine della Cina all’estero, elevarla al ruolo di nuova superpotenza, trasmettendo direttamente la conoscenza alle classi dirigenti dei prossimi
decenni. Per «conquistare i cervelli», rendendoli compatibili con i nuovi assetti globali, Pechino annuncia che non baderà a spese: dopo campus e
università, si appresta ad esportare anche istituti di ricerca, laboratori e centri sperimentali a disposizione delle aziende hi-tech.
Si apre così, tra Oriente e Occidente, l’era della concorrenza all’ultimo studente, al luminare più internazionale e al diploma sino- anglosassone senza più confini. La Cina, conquistato il primato mondiale per
numero di neo-laureati, promette infatti di mandare in pensione anche il “modello Silicon Valley”, simbolo del progresso nell’era americana: meno finanziamenti ai concentrati nazionali di menti esiliate nei deserti e risorse illimitate a strutture in rete, sparse in ogni angolo del globo, purché con il marchio chiaro del Dragone. «Vogliamo abbattere i muri che ancora dividono la conoscenza — ha detto Zhang Xiuqin, capo della cooperazione internazionale del ministero dell’Istruzione — : per insegnanti e studenti si aprono opportunità senza precedenti». Il campus a Londra non è che la prima tappa. Nel 2012 i giovani stranieri che hanno beneficiato di una borsa di studio cinese sono stati 23 mila. Entro cinque anni Pechino ne metterà a disposizione 200 mila, importando cervelli in Cina, oppure inviandoli negli atenei che si appresta a distribuire nei luoghi- chiave del pianeta: a New York, dove già opera la Shanghai University, ma pure a San Francisco, Parigi, Berlino, Sydney, Johannesburg, San Paolo, Città del Messico, Mosca, in tutta l’ Asia e anche a Firenze, dove sta per sbarcare il campus della Tongji University di Shanghai.
Dal Libretto Rosso di Mao ai manuali di scienza dei materiali: la Cina archivia i dogmi di massa e lancia la sfida per la leadership del progresso 2.0. Solo la meta non cambia: ritornare l’Impero di Mezzo, anche nel tempo del web da indossare.

La Repubblica 01.06.13

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