Una buona e una cattiva notizia. La prima, attesa, riguarda la chiusura della procedura d’infrazione per deficit eccessivo formalizzata dalla Commissione Ue. La seconda, meno scontata, viene dalle più aggiornate previsioni dell’Ocse che danno in peggioramento le stime della crescita e della disoccupazione. Un’autentica doccia fredda sui pur timidi entusiasmi che potrebbe suscitare la decisione annunciata da Bruxelles. Il cammino dei nostri conti pubblici resta, dunque, quanto mai stretto e i possibili margini di manovra quanto mai esigui. Chi vagheggiava che la fine del contenzioso comunitario avrebbe dischiuso le porte di chissà quali tesoretti fiscali da dispensare ai contribuenti a maggior gloria dei governanti, si trova ora ricondotto bruscamente al confronto con una realtà contabile che non concede né indulti né amnistie.
Il fatto che Bruxelles abbia archiviato la procedura contro il nostro paese offre di certo non piccole opportunità. La prima è che dovrebbe consolidarsi il clima più favorevole in atto sui mercati finanziari dove — anche grazie alle politiche monetarie espansive di Usa e Giappone — sta diventando sempre meno costoso il sostentamento del nostro debito pubblico. Tanto che, forse a fine d’anno, si potrebbe conteggiare un non disprezzabile risparmio rispetto alle previsioni sulla voce spese per interessi. Ma attenzione: perché questo accada, dovremo rigare diritto. La decisione comunitaria, infatti, si basa sul presupposto che l’Italia chiuda anche il 2013 con un deficit non superiore al fatidico 3 per cento. Se nei sette mesi che mancano alla fine dell’anno dovessimo interpretare la sentenza di proscioglimento come una licenza al bengodi fiscale, non perderemmo solo la faccia in termini politici: la pur sempre precaria costruzione del bilancio pubblico ci crollerebbe addosso. E il tanto odiato e temuto “spread” tornerebbe pane quotidiano sulle mense degli italiani.
Ha fatto bene perciò Enrico Letta a ringraziare per il successo di Bruxelles i sacrifici degli italiani ma si è allargato un po’ troppo evocando anche l’opera dei governi precedenti. Sul gabinetto di Mario Monti nulla da dire: anzi, è proprio ad esso che va riconosciuto tutto il merito del rientro nelle regole comunitarie. Ma fra i «governi precedenti» c’è pure quello dell’accoppiata Berlusconi-Tremonti al quale spetta tutto il demerito di aver provocato l’apertura del processo per deficit eccessivo. È il caso di richiamare questo punto non soltanto per scrupolo storiografico ma, soprattutto, perché oggi è dallo stesso versante politico che vengono le maggiori pressioni per avventurose manovre di restituzione fiscale, di nuovo con noncuranza degli inesorabili riflessi sui saldi contabili a termine.
Resistere, resistere, resistere a queste spinte: questo è il compito oneroso che ricade oggi sulle spalle di un premier il quale dice di voler guidare un governo «di servizio al paese».
L’aver cominciato l’opera ministeriale con l’annuncio sulla sospensione dell’Imu non ha fatto un gran bell’effetto in Europa e ieri il
commissario Olli Rehn non ha mancato di sottolinearlo.
Occorre, infatti, ricordare che quando Mario Monti ha messo in campo questa prima forma di imposizione patrimoniale non ha mirato soltanto a fare indispensabile cassa per un bilancio nei guai. La sua è stata anche una puntuale risposta ad una delle critiche più fondate rivolte all’Italia dal resto d’Europa. In sintesi, chi ci guarda da Oltralpe vede il nostro paese come un convento povero affollato da frati ricchi. Seppure un po’ rozzamente, il governo Monti ha voluto spazzare il campo da questa incresciosa immagine dell’Italia. Visto che oggi può ritornare a testa più alta in Europa, il premier Letta aggiusti pure le norme sull’Imu ma senza strafare come gli chiede lo spregiudicato Berlusconi, evitando come la peste di rinfocolare la pessima impressione di un paese incapace di equilibrio sociale e di serietà fiscale.
Raccomandano questo esercizio di responsabilità politica non solo le stringenti osservazioni di Bruxelles, ma anche le allarmanti previsioni dell’Ocse che vedono un Pil 2013 in calo dell’1,8 per cento e una disoccupazione in aumento fino al 12,5 per cento l’anno prossimo. E qui siamo davvero al punto più critico. Enrico Letta dice di voler anteporre a tutto il tema socialmente crudele della disoccupazione giovanile. Giustissimo, non ci si illuda però di poter sciogliere questo nodo con un’acconcia manutenzione della legislazione vigente. Un po’ di bricolage giuridico non disturba certo, ma se un’azienda non vende i propri prodotti non è che possa assumere solo perché le si offre un lavoratore a costi più bassi. Insomma, il problema del paese non è quello di trovare modi più accettabili per spartire una torta in decrescita ma quello di farla diventare più grande quella torta. Finalmente in questi giorni — dopo settimane di avanti e indietro su fisco, tasse, Imu, Iva — è riapparso sulla bocca del neoministro dell’Economia, Saccomanni, il vocabolo «investimenti». Alla buon’ora: ecco la parola d’ordine che il premier deve fare propria nei consessi europei. Il suo maestro Andreatta ne sarebbe orgoglioso.
La Repubblica 30.05.13