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"Addio a Franca Rame, leonessa del teatro che regalò il coraggio alle donne", di Gad Lerner

La sera prima di morire Franca Rame aveva partecipato nel salotto di casa a una lettura collettiva di “Fuggita dal Senato”, il suo ultimo testo di denuncia della malapolitica che Dario Fo le chiedeva di recitare con lui in un teatro di Verona. Faticava, ma neanche concepivano che una come lei potesse non farcela. E ora, seduto su quello stesso divano, Dario si aggrappa all’ironia recitando il vecchio detto milanese: L’era inscì bela, ier!
Bella, sì, era bellissima, di una bellezza femminile sensuale e prorompente che nessuna altra grande attrice aveva saputo contenere altrettanto nel talento artistico e nella dedizione generosa per gli altri, facendone una donna speciale. Moglie e madre, anche sul palcoscenico. Attrice, anche nella quotidianità. Dentro al viavai parossistico che sono state le sue case-accampamento, sempre aperte all’ospitalità incondizionata di noi ragazzi sbalestrati, teatranti poveri, militanti sovversivi, ex detenuti senza fissa dimora. Non so dove trovasse l’energia per sopravvivere là in mezzo, dirigendo il traffico con la sua voce roca sovrastante il casino. Era un continuo fare la rivoluzione, femminista e comunista, ma proteggendo nello stesso tempo il figlio Jacopo dalle sue intemperanze giovanili e senza mai venir meno alla severa revisione dei copioni teatrali di Dario, che oggi infatti racconta: «Avevo paura a mostrarglieli, ma quello di Franca era l’unico giudizio netto del quale mi fidavo». Troppi ricordi si sovrappongono di fronte a questa donna che rinunciò a fare la diva e ora giace nella piccola camera da letto affacciata su Porta Romana, dove Dario vuole ancora distendersi per riposare accanto a lei. Spiegandoci di provare la stessa sensazione di passaggio esistenziale di quando morì sua madre.
Li ho conosciuti qualche anno dopo che la Rai, nel 1962, ne aveva decretato l’ostracismo perché colpevoli di aver rappresentato nello show del sabato sera la piaga degli incidenti sul lavoro. Per fare teatro dovevano arrangiarsi fuori dal circuito ufficiale. Furono i primi a elargirmi una paga: armato di ramazza, spazzavo i mozziconi di sigaretta dopo gli affollatissimi spettacoli al Circolo La Comune di via Colletta, dove videro la luce
Mistero buffo e Morte accidentale di un anarchico.
Solo nel 1974, per un paio d’anni, il sindaco Aniasi concesse loro l’uso della Palazzina Liberty.
Franca Rame ci era nata, in mezzo al teatro popolare di strada, nel 1929. Suo padre socialista girava per la Lombardia con un palcocarrozzone che si montava e smontava in tre ore, e a lei piaceva ricordare che l’avevano già portata in scena quando aveva solo otto giorni. Nel dopoguerra il suo fascino le aveva spianato la carriera del varietà, ma non poteva certo bastarle fare la bela tosa.
Con Dario Fo si sposarono in chiesa perché sua madre diffidava dalle unioni fragili dei teatranti, ma al funerale non saranno contemplati preti, semmai bandiere rosse. La loro compagnia teatrale nacque nel segno dell’allegria ma, fin da subito, anche della denuncia sociale. Un impegno da cui non derogarono neppure quando la televisione in bianco e nero ne fece delle star popolari. Resteranno fedeli alla Milano degli ultimi, come l’amico Enzo Jannacci che Dario, seduto sul sofà, ancora rimpiange: «Questo
2013 prima di Franca mi ha portato via le altre persone più care, Enzo, don Gallo… «.
Vivevano in un piccolo appartamento di via Ansperto negli anni più aspri della violenza politica. Proprio lì sotto, nel marzo del 1973, cinque squadristi la presero con la forza e la violentarono a bordo di un furgone. Ne uscì tumefatta ma ferrea nella volontà di pubblica denuncia. Il suo monologo Lo stupro ci lasciò allibiti per il coraggio. Così come il successivo Tutta casa, letto e chiesa che dava finalmente voce al movimento femminista. Perché Franca Rame all’occorrenza sapeva essere sgradevole anche con i compagni, quelli che la vedevano sempre un passo indietro a Dario Fo senza capire che era lei a dare la linea, nell’arte e nella politica. Così come era lei a pretendere che gli incassi dei loro spettacoli servissero a finanziare le cause più scomode: il sostegno agli operai licenziati e poi la difesa dei detenuti politici per cui fondarono “Soccorso rosso”. Non potrò mai dimenticare, in una livida giornata genovese dell’aprile 1980, quando bussai alla sua camera d’albergo per informarla che il vecchio avvocato Edoardo Arnaldi si era sparato un attimo prima che i carabinieri lo arrestassero in quanto militante delle Brigate Rosse. Franca era al tempo stesso affranta e furiosa di quello che avvertiva come il tradimento di una nobile causa.
Nel 1997 arrivò la rivincita del premio Nobel per la letteratura a Dario, la cui targa campeggia nel salotto colorato dalle sue maschere e dai suoi dipinti. Il Nobel a Fo? Restò sbigottita un’Italia perbenista che li aveva relegati a artisti marginali, ignorando che le loro commedie fossero fra le più rappresentate nel Nord Europa e perfino oltreoceano. Franca impose subito che quei soldi venissero destinati a una fondazione per gli artisti in difficoltà, e non fu certo facile amministrarli con le loro mani bucate. Poi è venuta la breve parentesi nelle istituzioni, al Senato. Disgustata dai giochi di Palazzo, delusa da Di Pietro, non ci mise molto ad andarsene da Roma, ma fino all’ultimo ha sentito il bisogno di raccontare — anche in forma teatrale — la sua critica alla politica politicante.
Si sono amati intensamente alla loro maniera vitale, eccessiva, ruvida, Franca e Dario. Presi e lasciati e ripresi, inconcepibili l’uno senza l’altra. Magari lei scappava dall’adorato Jacopo a Alcatraz, nella campagna umbra trasformata in comune ecocompatibile; e allora Dario correva da loro. Digerì pure Coppia aperta, quasi spalancata, resoconto delle loro burrasche. Perfino oggi ne sorride con tenerezza, fra una telefonata di Ferruccio Soleri e l’altra di Moni Ovadia. Quella donna è stata un vulcano di energia, la sua voce temprata dalla recitazione risuona dentro a chi ha avuto la fortuna di condividere con lei il teatro della vita.
La Milano del teatro ufficiale li riabbracciò nel gennaio 2011 con una lunga serie di repliche al Nuovo di piazza San Babila. Tardiva riconciliazione, e ogni sera Jacopo spaventato si chiedeva se papà e mamma ce l’avrebbero fatta. Furono splendidi, come sempre. Lei con la sua chioma vaporosa platinée e con gli occhiali grossi a esaltarne lo sguardo inconfondibile che seduce e rimprovera. Una leonessa.

La Repubblica 30.05.13

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