Ancora una volta è apparsa evidente la diversità tra le elezioni amministrative e quelle per le politiche. Una caratteristica costante in Italia, ma che pure i differenti sistemi di voto in uso nelle due consultazioni hanno accentuato. Cambia, evidentemente, la domanda dei cittadini nei confronti dei candidati e cambia l’offerta della politica nel cosiddetto mercato elettorale.
Quando i due tipi di votazione si sovrappongono, poi, le valutazioni sono ancora più complicate perché gli effetti di trascinamento tra i due voti non sono facilmente calcolabili.
I confronti e i giudizi, perciò, dovrebbero sempre rispettare le regole elementari della statistica, quelle che comparano situazioni omogenee e criteri altrettanto omogenei. L’analisi dei risultati del voto di ieri, proprio cercando di non tradire le norme della correttezza valutativa, consente sia qualche correzione alle impressioni più immediate, sia di formulare alcune ipotesi sulle tendenze, di più lungo periodo, nei comportamenti elettorali degli italiani.
L’esito più clamoroso e più preoccupante della parziale consultazione amministrativa è certamente il dato dell’astensione. La percentuale dei cittadini che non hanno ritirato la scheda elettorale è alta in sé, ma è ancor più significativa perchè, in Italia, il fenomeno del «non voto», diversamente da altre democrazie occidentali, non è mai stato così diffuso. Un confronto, però, tra votazioni amministrative omogenee, cioè quelle non «inquinate» dall’effetto spurio di contemporanee elezioni politiche nazionali, suggerisce un giudizio meno sorprendente. Perché non c’è stato un crollo improvviso della partecipazione elettorale, ma la conferma di una costante tendenza che, alla tradizionale scadenza dei cinque anni di una legislatura comunale, si pone sempre tra il 5 e l’8 per cento in meno di votanti. Un dato forse ancor più allarmante di una caduta drammatica, perché segnala una disaffezione dei cittadini per la politica profonda e crescente, non legata a sfiducie episodiche e transitorie, ma a una delusione per i comportamenti della nostra classe politica che nasce da lontano e che non sarà curabile, nè in tempi brevi, né con ricette demagogiche, come il caso Grillo sembra dimostrare.
Al di là delle un po’ affrettate consolazioni del «Pd» sulla tenuta del partito, fondate più sullo scampato pericolo della sua dissoluzione che sui consensi numerici effettivamente ottenuti dai suoi candidati, la riflessione forse più interessante, quella che illumina uno scenario più gravido di conseguenze per il sistema politico italiano, anche con uno sguardo più lungo sul futuro, riguarda il centrodestra.
Se, come pare probabile, Alemanno sarà sconfitto al ballottaggio da Marino, questo schieramento che, dalla fondazione della Repubblica, può contare sulla maggioranza dei consensi tra gli italiani non guiderà nessuna tra le più importanti città del Paese. Con il rischio di perdere persino alcune delle sue tradizionali roccaforti in quelle città di media dimensione che, soprattutto nel Nord, avevano sempre assicurato un suffragio ampio e sicuro allo schieramento di centrodestra. Questo risultato, naturalmente, non si fonda sulla peggiore prestazione che, da sempre, contraddistingue l’alleanza guidata da Berlusconi nel voto amministrativo rispetto a quello nelle politiche, ma confronta votazioni di tipo omogeneo.
I motivi di tale situazione sono vari e si possono dividere sostanzialmente in due campi, il primo di tipo più strettamente politico, il secondo con caratteristiche economico-sociologiche.
Dopo vent’anni, la leadership carismatica di Berlusconi non è riuscita, non ha potuto, non ha voluto creare una classe dirigente con personalità adeguate alle esigenze di governo del territorio. Nei casi più fortunati ha «adottato» leader locali di provenienza democristiana o socialista, in altri ha gettato nella mischia della politica manager pubblicitari, uomini di belle ma sproporzionate speranze, donne di bella ma troppo ambiziosa presenza. Il risultato di un confronto che, in genere, vede perdenti i candidati locali del centrodestra rispetto a quelli del centrosinistra, non deriva da un destino avverso, né da differenze, dal punto di vista politico, genetiche. E’ il prodotto naturale, coerente e inevitabile del rapporto fiduciario e personale tra Berlusconi e il suo elettorato. Con il vantaggio di poter godere, all’ombra della sua abilità nelle campagne elettorali nazionali, di una rendita di posizione assicurata, o quasi, in Parlamento, ma con lo svantaggio di perderla del tutto quando il candidato, nel voto amministrativo, non è più lui. Per ora, il rischio che il centrodestra perda una forte rappresentanza alle Camere è oscurato dalla longevità politica del Cavaliere, ma in un futuro non troppo lontano questa sarà l’incognita più importante del nostro sistema democratico.
La seconda causa della grave sconfitta di questo schieramento è il venir meno di quella richiesta liberista e antistatalista su cui si è fondato, per 20 anni, il consenso, soprattutto nel Nord, al centrodestra. In un momento di crisi economica, dalle giunte degli enti locali ci si aspetta sicurezza sociale, mantenimento dei livelli nei servizi pubblici, stimolo allo sviluppo e all’occupazione. Attese che, in genere, si pensa siano più ascoltate da uomini della sinistra e meno da candidati dello schieramento opposto.
Ecco perché il centrodestra, se vuol garantirsi un futuro meno oscuro, non dovrà solo pensare al dopo Berlusconi, alla costruzione di un partito e di una classe dirigente all’altezza delle sfide dei prossimi decenni, ma a come adeguare il suo programma politico alle mutate esigenze del blocco sociale che, in questi anni, ha costituito lo zoccolo duro dei suoi consensi elettorali.
La Stampa 29.05.13