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"Sul web la giustizia fai da te", di Fabio Tonacci

Ci si vendica anche, sul web. Con una foto rubata, con un video imbarazzante pubblicato senza autorizzazione, con una chat che doveva rimanere privata e invece è lì, sbattuta su una pagina di Facebook. Visibile da tutti, parenti e amici, e da tutti inesorabilmente commentata. È così che un social network diventa gogna, per esporre alla pubblica umiliazione Carolina, che ha bevuto troppo e si fa riprendere mentre le dicono oscenità. O Andrea a cui piace indossare pantaloni rosa e quindi per il branco è un debole che va sfottuto. Due quindicenni che poi si sono suicidati perché travolti dalla vergogna. Si consumano vendette. Quasi sempre insultando e denigrando. Oppure postando le sgangherate chat di presunti stalker sessuali sulla pagina «Io odio i maniaci di merda». Altre volte, poi, trovando in Rete il coraggio che non si ha nella vita reale di segnalare possibili evasori fiscali, finti disabili, truffatori vari o semplici autisti di bus col vizio di correre troppo. Come nel caso di
evasori inchiodati con nome, cognome,
foto, email private. E però a sbriciolarsi non sono solo le reputazioni di centinaia di utenti, ma anche il concetto stesso di privacy, demolito da ritorsioni a mezzo web sempre più praticate e pericolose, oppresso da forme virtuali di giustizia faidate: si preferisce screditare pubblicamente online qualcuno, invece di presentare una vera denuncia alle autorità. Sfruttando la possibilità di gettare sassi e ritirare le mani che Internet offre a costo zero. Come nel caso di “Io odio in maniaci di merda II”, seconda versione di una popolarissima pagina Facebook aperta ad aprile 2012 e che in poco più di un anno ha accumulato quasi 38mila sostenitori (la prima era arrivata a 230mila like, poi ha avuto qualche problema, anzi «è stata rubata », come dicono gli ammini-stratori). È una lunga e a prima vista pure divertente galleria di centinaia di chat
private tra uomini e donne in cui il copione seguito è sempre uguale a sé stesso. Tragicamente agganciato ai cliché da giornaletto porno: lui si esibisce in un approccio sessuale tanto sconcio quanto goffo, lei lo manda regolarmente a quel paese, lui la offende. Con varianti sul tema: invio di foto di genitali, minute descrizioni di esagerati amplessi vagheggiati, proposte di masturbazioni via webcam, inviti osceni col banale canovaccio della donna sottomessa.
Chat dal lessico così triviale che mancano non solo di decenza, ma anche di congiuntivi, apostrofi, virgole. Come se tutti i maniaci d’Italia fossero anche dei mezzi analfabeti.
La vendetta delle stalkizzate si concretizza fotografando lo schermo del computer o del telefonino e inviando tutto agli amministratori. «Ho creato la pagina perché mia sorella era stata molestata da un tizio su Facebook — racconta uno dei gestori, rispondendo alle nostre domande via mail senza
però rivelare la propria identità — ci arrivano dalle 200 alle 300 segnalazioni al giorno, non riusciamo a leggerle tutte, siamo in arretrato di 8mila messaggi». Sull’autenticità di certi
screenshot pubblicati nemmeno gli amministratori possono mettere la mano sul fuoco, però i nomi corrispondono a profili reali. «Le persone incastrate reagiscono molto male, con minacce di morte. A volte cercano di intimidirci sostenendo di essere imparentati con la mafia. Facebook segue le norme americane per cui non siamo noi a violare la privacy, al massimo lo fa chi manda le schermate. Sono quasi sempre ragazze».
A prima vista, degli Zorro della Rete: giustizieri mascherati che combattono con la spada della divulgazione gli impuniti e sboccati maniaci del web. O presunti tali. Ma c’è anche chi non considera quest’operazione del tutto limpida, criticandone scopo e modalità. Chi decide, per esempio, chi è maniaco e chi no? Le chat pubblicate spesso sono parziali, non si capisce con chiarezza chi abbia provocato chi. Perché le vittime
non si rivolgono direttamente alla Polizia se si sentono molestate? In alcuni casi gli “incastrati” sembrano essere persone con seri problemi psichiatrici, andrebbero curate più che dileggiate. E qualche legittimo dubbio su una pagina il cui titolo inizia con “io odio” e finisce con un’offesa, si può anche avere.
Ma qualche dubbio in termini di privacy c’è anche su quei siti in cui si denunciano i presunti evasori fiscali. Su gli utenti possono segnalare i negozi che non rilasciano gli scontrini. Non ci sono i nomi dei titolari, è vero, ma i punti vendita sono indicati con precisione su una cartina geografica. Cioè non è difficile capire qual è il punto vendita in questione. In un anno sono state raccolte 125mila denunce per un totale di 18 milioni di euro di scontrini non fatti. Con lo stesso obiettivo è stato aperto che si serve anche di una app per smartphone, allo scopo di comunicare in tempo reale luogo e entità della ricevuta non fatta o della fattura maggiorata. La presunta evasione, secondo i calcoli del sito, ha raggiunto i 140 milioni di euro. Anche in questi casi però, come si fa a essere sicuri che la segnalazione sia fatta in buona fede e non sia invece un subdolo tentativo di discreditare qualcuno?
Il successo delle community che denunciano maniaci sessuali, o presunti tali, ed evasori
fiscali, o presunti tali, è anche figlio della moderna tendenza a usare il web per regolare conti. Basta poco, del resto. Una foto compromettente, una mail riservata postata su Facebook, una notizia falsa diffusa su Twitter. Le minacce arrivate alla casella di posta elettronica del presidente della Camera Laura Boldrini e la foto falsa in cui appariva nuda fatta circolare a scopo denigratorio sono storia di ieri. Così come la decisione del direttore del Tg di La 7 Enrico Mentana di cancellarsi da Twitter per i troppi insulti ricevuti ha spinto Roberto Saviano a riflettere dalle pagine di Repubblica sui confini del nuovo diritto al social network, sulle sue possibili degenerazioni, sulla «necessità di regole che non può passare per censura». Fin dove arriva la legittima critica, si chiede lo scrittore, e dove invece inizia la diffamazione? E fin dove si può spingere la libertà di denunciare su siti e social network presunti colpevoli di reati, nascondendosi dietro l’anonimato? Che fine facciano queste denunce, poi, non è sempre chiaro. «Molte ragazze sono andate dalla polizia e ci hanno mandato la foto del verbale — sostengono gli ammini-stratori di “Io odio i maniaci di merda II” — addirittura qualche pedofilo era già sotto controllo e la polizia li ha beccati grazie a loro».
Efficace o meno, la vendetta via Internet non è fenomeno solo italiano. In Cina sono stati aperti diversi portali dove si possono divulgare i nomi di chi si crede abbia preso mazzette. In Estonia, Lituania, Finlandia e Iran i corrotti si possono denunciare con lo
smartphone.
Col rischio che diventi un gioco al massacro: tutti contro tutti per rovinarsi la reputazione a vicenda. Da noi sta riscuotendo un discreto successo l’esperienza di uribo.com, community
di ragazzi italiani under 25 che denunciano finti disabili, mettono foto di persone col volto coperto che fumano in luoghi di lavoro infischiandosene del divieto, indicano i distributori di benzina che hanno rincarato troppi i prezzi, segnalano sprechi e piccoli scandali, come le tesi scolastiche buttate in un cassonetto dall’Università di Bari. Per ogni caso è indicata città e luogo, e il sito garantisce l’anonimato assoluto. Si lancia il sasso, si ritira la mano.

La Repubblica 27.05.13

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“Ma Internet è un mondo senza regole le vittime possono diventare carnefici”

«Internet e il mondo dei social network sono ancora un Far West senza regole. E chiunque divulga dati di natura sessuale si espone inevitabilmente a rischi enormi. Però stiamo attenti, talvolta le vittime possono diventare carnefici. Come nel caso di “io odio i maniaci di merda”». A parlare è Antonello Soro, il garante della privacy, che da settimane monitora i siti delle community di denuncia.
Cos’è che la preoccupa di più di quella pagina Facebook?
«La natura dei post in questione, perché possono essere tratti da una chat privata,
oppure possono essere stati pubblicati su un profilo aperto, o ancora essere stati inviati in maniera massiva e indiscriminata a più interlocutori, quasi fosse spam.
E poi c’è la possibilità dei “falsi”: non mi stupirei che molti dei messaggi denunciati nel sito possano essere stati postati da chi ha utilizzato nomi e cognomi combinati a caso e foto raccolte chissà dove. Da ultimo c’è il caso più grave, quello del furto di identità, cioè l’utilizzazione di dati personali di persone ignare che diventano vittime due volte: perché a loro nome vengono inviati messaggi volgari a sconosciuti e perché si ritrovano etichettati come “maniaci”». Si viola la privacy degli utenti in questo modo?
«Sì. E quindi chi, magari per difendersi o stigmatizzare un comportamento, usa un sito che denuncia presunti “maniaci” invece di rivolgersi alla autorità competenti, rischia di trasformarsi da vittima in carnefice».
Chi deve rispondere dell’eventuale violazione?
«In linea di massima a rischiare è chi materialmente posta i messaggi da denunciare. Tuttavia, anche l’eventuale moderatore o il soggetto che ha aperto siti di questo genere si espone comunque a gravi rischi»
E qual è la posizione del Garante su chi, attraverso siti che garantiscono l’anonimato, denuncia evasori fiscali?
«Se la finalità è fornire statistiche sull’evasione in Italia non ci sono rischi per la privacy. I problemi sorgono se il sito consente di rendono identificabile il presunto evasore. In questo caso sorgono una serie di quesiti in ordine al rispetto di alcuni importanti principi contenuti nel Codice privacy, dal principio di finalità a quello di pertinenza e non eccedenza. Per esempio: perché dovrebbe essere necessario pubblicare un fatto su un sito, quando è molto più efficace denunciare il fatto alle autorità competenti? Cosa capita se la denuncia non ha fondamento e l’interessato si vede etichettato come evasore di fronte al mondo? E ancora, può un sito sostituirsi agli accertamenti che competono a forze e di polizia e magistratura? »
(fa. to.)

La Repubblica 27.05.13