A leggere i giornali, si direbbe che sul modello francese nel partito democratico siano ormai tutti, o quasi tutti, d’accordo. Legge elettorale a doppio turno e semipresidenzialismo sarebbero dunque la risposta migliore al montare dell’antipolitica, l’unica davvero all’altezza della richiesta di rinnovamento che sale dal Paese.
Curiosa conclusione, considerato che si tratta della proposta uscita quindici anni fa dalla famigerata bicamerale D’Alema. Addirittura surreale, se consideriamo come nella lunga serie di crisi istituzionali in cui la politica italiana si dibatte da almeno tre anni l’unico punto di riferimento certo, l’unica istituzione riuscita a conservare credibilità e capacità di svolgere il proprio ruolo, a detta di tutti, è proprio la presidenza della Repubblica. Vale a dire l’unica istituzione rimasta intatta in questi venti anni di continua torsione del sistema in nome di uno spirito del bipolarismo maggioritario del tutto estraneo al nostro dettato costituzionale.
Molti autorevoli osservatori sostengono che l’emergenza di oggi sia salvare questo bipolarismo ed evitare il ritorno al proporzionale. Non c’è da sorprendersi: anche all’indomani del fallimento di Lehman Brothers molti autorevoli economisti sostenevano che l’emergenza fosse evitare il ritorno ai salvataggi di Stato. Vista la situazione, in entrambi i casi, forse sarebbe il caso di preoccuparsi dell’andata, prima che del ritorno.
Se alle ultime elezioni gli italiani hanno dato tra il 25 e il 29 per cento a tre diversi poli — centrosinistra, centrodestra e Cinquestelle — cosa significa, in concreto, salvare il bipolarismo? Quale bipolarismo, con tre poli che in campagna elettorale si sono presentati come perfettamente equidistanti l’uno dall’altro? Illudersi di risolvere il problema con il doppio turno è una furbizia che può costare cara. Nella Francia del 2002 il candidato socialista all’Eliseo Lionel Jospin rimase fuori dal ballottaggio per i voti che gli sottrassero i candidati di ben quattro diverse liste trotzkiste. Al secondo turno andarono così il leader della destra gollista Jacques Chirac e il leader della destra xenofoba Jean-Marie Le Pen, costringendo la sinistra francese a condurre una surreale campagna elettorale a favore di Chirac. Il risultato fu la trionfale elezione a capo dello stato di un leader che al primo turno aveva preso meno del 20 per cento.
Nel discutere di sistemi elettorali non bisogna pensare alle convenienze di una parte, si dice. Non bisogna cercare di cucirsi addosso il vestito più adatto a vincere, si capisce. Se questo è vero, però, vuol dire che lo stesso vestitino bisogna essere capaci di immaginarlo anche indosso ai propri avversari. Prima di proseguire sulla strada del modello francese, pertanto, sarebbe utile che ciascuno di noi cercasse di visualizzare un ballottaggio per il Quirinale tra Beppe Grillo e Silvio Berlusconi, a familiarizzarsi con l’ipotesi del comico genovese a Capo delle Forze armate o del miliardario di Arcore a capo del Consiglio superiore della magistratura.
L’aspetto più curioso di questo dibattito è però la sua tempistica, a pochi giorni dall’ordinanza in cui la Cassazione ha spiegato tra l’altro che il premio di maggioranza del Porcellum «provoca una alterazione degli equilibri istituzionali, tenuto conto che la maggioranza beneficiaria del premio è in grado di eleggere gli organi di garanzia che, tra l’altro, restano in carica per un tempo più lungo della legislatura». Evidentemente, un simile problema riguarda tutti i sistemi maggioritari (potenzialmente, il doppio turno potrebbe anzi produrre alterazioni degli equilibri persino più significative). La nostra Costituzione prevede infatti una serie di contrappesi che le torsioni maggioritarie hanno progressivamente indebolito, in nome di una esigenza di «governabilità» che non sembra mai soddisfatta, ma intanto ha consentito a Silvio Berlusconi di farsi approvare fior di leggi ad personam, anche quando il suo partito non superava il 30 per cento. Se qualcosa è rimasto in piedi nonostante tutto, a cominciare dall’indipendenza della magistratura, è grazie a quel poco di contrappesi costituzionali che alla «rivoluzione maggioritaria» hanno resistito. Se si vuole abbattere anche quelli, lo si dica. Ma il modello francese non è una «modifica» della Costituzione e nemmeno una sua «riforma». È semplicemente un’altra Costituzione. Ogni scelta è legittima, naturalmente. Purché si chiamino le cose con il loro nome e non si pretenda di fare tutte le parti in commedia. Se si vuole sposare un’altra donna non si chiede una modifica del proprio rapporto di coppia, si chiede il divorzio.
L’Unità 26.05.13