Almeno gli uragani, grazie a Dio, non li abbiamo. Le immagini della scuola di Moore in Oklahoma, però, dovrebbero essere di monito anche per noi. E ricordarci che le nostre scuole sono in larga parte esposte alle calamità di un territorio ad alto rischio sismico e idrogeologico. E che piuttosto che gli scongiuri servirebbe un’opera profonda di risanamento.
Vogliamo rendere omaggio sul serio, un anno dopo, alle vittime del terremoto in Emilia? Cominciamo a mettere in sicurezza quel patrimonio edilizio, pubblico e privato, di cui scopriamo la fragilità ogni qualvolta viene giù una frana o la terra dà uno scossone per rammentarci che l’Italia è uno dei paesi storicamente più colpiti dagli eventi sismici. I quali dall’Unità a oggi avrebbero ucciso, secondo le stime della studiosa Emanuela Guidoboni, circa 200 mila italiani.
Come scriveva sei mesi fa il Sole24Ore, dei 64.797 edifici scolastici censiti dal Rapporto Ance-Cresme sullo stato del territorio italiano nel 2012 «6.415 sono stati realizzati prima del 1919, 6.026 fra 1919 e 1945, 28 127 tra il 1945 e il 1971. Il 62% del patrimonio ha quindi più di 40 anni e spesso è stato sottoposto male e poco a manutenzione straordinaria. Ma è l’esposizione al rischio a rendere la situazione seria: il 37% degli edifici scolastici si trova in aree ad alto rischio sismico e il 9,6% a elevato rischio idrogeologico. Delle 24.073 scuole localizzate in aree ad alto rischio sismico 4.894 si trovano in Sicilia, 4.872 si trovano in Campania, 3.199 in Calabria».
Certo, con questi chiari di luna non è facile trovare i soldi per risanare tutti quegli edifici. E Dio sa quanto sia da rimpiangere lo spreco di risorse negli anni buoni. In ogni caso, la storia si è fatta carico di dimostrare che, purtroppo, intervenire «dopo» è peggio. Non solo perché si piangono i morti. Ma anche perché le ricostruzioni costano di più delle manutenzioni straordinarie.
Almeno per il patrimonio edilizio privato, comunque, qualcosa può essere fatto subito. Lo afferma una risoluzione votata all’unanimità dalla Commissione ambiente, territorio e lavori pubblici della Camera. La quale chiede che non solo sia rinnovato il patto coi cittadini perché possano scaricare dalle tasse il 55% delle spese fatte per migliorare l’efficienza energetica degli edifici ma l’estensione di questa opportunità «agli interventi di consolidamento antisismico» rendendo «obbligatoria la certificazione antisismica degli edifici pubblici e privati e i relativi controlli strutturali periodici».
«E i soldi dove li trova lo Stato per fare quegli sconti a tutti?», dirà qualcuno. Il presidente della commissione Ermete Realacci (l’unico, tra l’altro, ad aver rinunciato integralmente all’indennità di presidenza pari a 26.700 euro lordi l’anno), giura che non c’è problema. E che «tutti i soldi di tasse cui lo Stato rinuncia finiscono per rientrare e le misure si ripagano da sole, favorendo un aumento del fatturato e l’emersione del sommerso».
Tanto è vero, spiega, che «esistono dei problemi nelle regioni meridionali dove l’edilizia in nero è più forte». Lo dimostra una tabella dell’Enea. Su 100 interventi di riqualificazione nel 2011 la Lombardia ne contava 22,2 e la Campania un decimo: 2,1. E così la Sicilia: 2,0.
Un peccato: «Si parla tanto di Imu: la gran parte degli italiani paga meno di 500 euro per la prima casa e tra una casa costruita bene e una inefficiente passa la differenza di una bolletta di 1.500 euro l’anno. Il triplo. Se tutti se ne rendessero conto…».
Mesi fa, una ironica campagna pubblicitaria dell’Agenzia per la cooperazione e lo sviluppo norvegese studiata per ribaltare gli stereotipi verso il continente nero e basata sullo spot di bambini neri che cantavano «Africa for Norwey», si intitolava «Mandiamo termosifoni ai norvegesi!». Le nuove tecnologie e la migliore edilizia, in realtà, dimostrano che le case del futuro potranno farne a meno, dei termosifoni. Perfino a Oslo. Dove l’inverno è più lungo che sull’Appennino.
Un dossier del Cresme sul mercato delle costruzioni garantisce: «Il solo bilancio dello Stato evidenzia come ad entrate immediate o di poco posticipate (Iva, oneri sociali, Irpef, Ires, etc.) corrispondano uscite spalmate su 10 anni. Per effetto dell’attualizzazione dei valori in gioco, dunque, lo Stato trae un vantaggio nel décalage dei tempi fra gli incassi e le minori entrate. In estrema sintesi è dunque corretto affermare che al 2021 l’impatto del 55% sul sistema paese produrrà un saldo positivo quantificabile in 9.051,5 milioni di euro».
A maggior ragione, sostiene la commissione, sarebbe un peccato se a fine giugno l’agevolazione fiscale del 55% fosse lasciata cadere per essere sostituita con la detrazione fiscale del 36%, originariamente prevista per le sole spese di ristrutturazioni edilizie.
Se gli «interventi di green economy, finalizzati alla riconversione ecologica dell’economia, sono un importante volano per la ripresa dell’economia italiana dalla grave e prolungata crisi economica in atto», dice il documento, vale la pena di insistere. Allargando tutto alle ristrutturazioni per mettere le case in sicurezza. Un guadagno per i privati, un guadagno per lo Stato.
«Il presente e il futuro dell’edilizia, uno dei settori più in difficoltà con oltre mezzo milione di posti di lavoro persi dall’inizio della crisi, è legato più che a nuove costruzioni (e nuovo consumo di territorio) a scelte diverse come la riqualificazione del patrimonio esistente, la demolizione e la ricostruzione, il recupero di aree urbane degradate, la bellezza. Alla qualità più che alla quantità», dice Realacci, «Del resto concordano su questo anche i costruttori, le imprese, i sindacati, i professionisti… Non è un caso se il voto in commissione è stato unanime».
Il Corriere della Sera 24.05.13