Le molotov che brillano nel centro di Milano, in pieno giorno, hanno il riverbero remoto di antiche guerriglie urbane. Anche se mai in strade così prestigiose, via della Spiga, via Montenapoleone. Ma niente ricordano e niente sanno, di quelle fiammate, le giovani commesse dei negozi eleganti, e i giovani immigrati addetti alla sicurezza.
Difficile che nei rapinatori che quelle molotov hanno lanciato ci fosse qualche vaga malizia “politica”, quasi una citazione della violenza di strada per marcare il territorio; più probabile che sia stato solamente un inedito espediente tattico del sempre fervido ingegno criminale, confondere eventuali inseguitori, costringere i curiosi a starsene rintanati. Fatto sta che da ieri mattina Milano aggiunge un nuovo capitolo alla discussione, non sempre congrua ma sempre inevitabile, sull’ordine pubblico: la rapina con le molotov non ha il terribile impatto degli spari e del sangue, e tanto meno l’orribile ricaduta di morte del clandestino fuori di testa che mulina un piccone contro gli inermi, ma aggiunge una nuova paura, lugubremente spettacolare, al catalogo delle paure. Che nelle grandi città sono già tante.
Per evitare di ripetersi, chi scrive è andato a ritroso nel tempo, alla ricerca delle tante occasioni, nella sola Milano, in cui quel dibattito si è acceso. Recente (settembre scorso) l’esecuzione a freddo in corso Lodi di un piccolo spacciatore, davanti alla compagna e al figlio piccolo, “come a Scampia”, si disse e si scrisse. Ma è bene sapere – perché un dibattito già complicato non diventi anche stupido – che non è passato anno, da quando esistono gli archivi di cronaca nera, in cui un delitto orribile o una rapina sanguinaria non abbiano stretto il cuore della città, sollevato ira contro sindaci di qualunque colore, questori, prefetti, governi, scatenato speculazioni politiche quasi mai seguite, una volta sfumata l’emotività, da tangibili mutamenti politici. (Obbligatorie a questo proposito due citazioni, la rapina di via Osoppo e la fuga assassina della banda Cavallero, episodi efferati che oggi alzerebbero un polverone politico fitto, irrespirabile, isterico).
La sola certezza è che la crisi morde e tra i suoi effetti, ahimè ovvi, c’è un percepibile aumento dei reati detti “predatori”, cioè rapine, scippi, furti in appartamento. I reati nel loro complesso sono invece, non solo a Milano, in lenta e costante diminuzione: ma si capisce che la criminalità percepita, quella che fa sentire le persone insicure, che mozza il respiro e taglia le gambe, è quella predatoria, che mette a rischio, oltre al patrimonio, anche la sicurezza fisica, l’intimità domestica, insomma l’integrità della persona.
I sindaci – non solamente quello di Milano – sono in prima linea quando la gente, spaventata, si domanda “chi ci protegge”, e lamentano le poche divise visibili per le strade, la sensazione di essere inermi di fronte ai malandrini. E certo non basta, ai sindaci, citare Lucio Dalla, che raccontava di Roma, dunque della metropoli italiana per eccellenza, e suggeriva che se “ci sono anche i delinquenti, non bisogna aver paura, basta stare un poco attenti”. Non basta neppure dire che se è l’economia in apnea la causa principale dell’aumento di furti e rapine, le leve per agire sono tutte o quasi nelle mani del governo centrale. I sindaci sono inevitabilmente chiamati in causa e tirati per la giacca, quando la città si sente meno sicura. C’è chi lo fa con sgarbo o con calcolo, chi invece, e sono molti, perché ha paura e chiede più protezione e più giustizia (poche cose sono ingiuste come subire una rapina o uno scippo).
Pisapia ritiene che le politiche sociali e l’integrazione (con i pochi quattrini che rimangono nelle casse dei Comuni) siano, per la sicurezza, la politica migliore: meno ci si sente esclusi, meno si delinque. Più diritti portano a più doveri. Ma l’opposizione non è d’accordo, pretende più repressione, più polizia, qualcuno addirittura l’esercito con le sue camionette, chissà come sarebbero contenti gli orafi, gli stilisti, gli antiquari di Montenapo di avere una camionetta piena di militi davanti alle sue vetrine.
Cercando di mantenere fermo il punto di verità (dolorosa, ma verità) che nessuna politica, né di intolleranza né di tolleranza, né di destra né di sinistra, può levare il male e il crimine dalle nostre città e dalle nostre vite, va detto che non gli autoblindo, ma certamente quei vigili di quartiere dei quali in Italia si parla da generazioni, forse da secoli, senza mai vederne mezzo, potrebbero servire a qualcosa. A tranquillizzare, anche psicologicamente, a prevenire, ad avvertire in tempo di qualche emergenza (si pensi alle due ore di ritardo nel bloccare l’omicida col piccone).
Nel programma di Pisapia i vigili di quartiere c’erano. Erano una bella idea, meno originale delle altre, ma bella e molto civica, dunque in perfetta sintonia con lo spirito di cittadinanza che ha portato Pisapia a stravincere. I soldi sono pochi e si sa, ma se i vigili di quartiere non si possono avere perché costano troppo, è giusto che i milanesi vengano informati. Perché, oltre allo spirito civico, la giunta Pisapia si è fatta forza, insediandosi, anche del principio di trasparenza, di un rapporto diretto tra il Municipio e la strada. Quando la strada brucia, alza lo sguardo al Municipio, e aspetta che qualcuno si affacci.
La Repubblica 22.05.13