Il modello tradizionale dell’estrema destra, neo fascista o neo nazista, appartiene ormai al passato o sopravvive a stento. In esso rientravano l’Msi prima del congresso di Fiuggi; l’Msi- Fiamma tricolore di Pino Rauti; l’Npsd e la Dvu tedeschi; il National Front e il Bnp britannici; o l’Nvu olandese. I movimenti con la vecchia impronta sono ridotti a gruppuscoli. Il modello post industriale (come l’ha chiamato Piero Ignazi) ha conosciuto invece un’espansione significativa. Favorita anche dalla crisi economica e finanziaria, intervenuta nel frattempo.
Il fenomeno populista, nelle sue dimensioni attuali, è un prodotto della svolta avvenuta attorno al 2000, quando l’inizio del secolo segna per noi europei, se non proprio la fine, il profondo mutamento di un mondo e comincia, appunto, quello dell’incertezza. Si è appena concluso il comunismo ed è appena iniziata la globalizzazione. Per molti paesi del vecchio continente si sta per aprire l’era dell’euro, della moneta unica, vista come una rinuncia della nazione; i referendum sulla Costituzione europea rivelano profonde perplessità (Olanda e Francia reagiscono con un “no”); esplode il terrorismo islamico con l’attentato dell’11 settembre a New York; ne segue la guerra in Afghanistan e un paio d’anni dopo quella in Iraq; i due conflitti “contro l’Islam” e gli attentati del 2004 a Madrid e del 2005 a Londra rilanciano, accentuano i timori per il terrorismo islamico e di conseguenza quelli per la massiccia immigrazione musulmana. E nel 2008, il 15 settembre, l’affare della banca di investimenti Lehman Brothers annuncia la crisi economica e finanziaria. Con le conseguenze che ancora viviamo, in particolare l’austerità e l’aumento della disoccupazione.
È su questo sfondo (ricostruito da Dominique Reynié, professore nella parigina Sciences Po e autore di saggi sull’opinione pubblica) che le democrazie europee vedono crescere l’ondata populista. Due sono gli itinerari seguiti dai partiti politici convertiti, in parte o del tutto, alla nuova, devastatrice protesta. Il primo riguarda i movimenti dell’estrema destra razzista i quali agiscono per opportunismo. I dirigenti più giovani abbandonano o accantonano le vecchie ideologie neo naziste, neo fasciste, antisemite e negazioniste (dell’Olocausto). E archiviano l’anticomunismo, non solo perché il comunismo si è dissolto, ma anche perché un’ampia porzione degli strati popolari un tempo sensibile ai suoi richiami adesso rappresenta un elettorato da conquistare. I populisti si adeguano con pragmatismo alle nuove realtà. Non mancano di spirito imprenditoriale. Conoscono la cultura del marketing.
In Francia la svolta del Front National avviene a tappe. L’anziano Jean-Marie Le Pen tenta senza grande successo la modernizzazione del partito di cui è il fondatore, ma questa sua incapacità non gli impedisce nel 2002 di superare il candidato socialista, Lionel Jospin, al primo turno delle elezioni presidenziali. Al ballottaggio sarà inevitabilmente sconfitto dal tardo gollista Jacques Chirac. Per Le Pen sarà comunque una sconfitta trionfale. E lo sarà anche per l’estrema destra che si sta riformando.
La figlia Marine gli succede nove anni dopo e adotta un discorso non più ancorato ai temi tradizionali. La neo leader del movimento non attenua gli attacchi all’immigrazione, in particolare quella musulmana, ma non ricalca lo stile del razzismo paterno. Lo ripulisce, lo nasconde sotto i richiami alla democrazia. Marine Le Pen predica l’uguaglianza tra uomini e donne, la laicità, le libertà individuali e d’opinione. Da questa base se la prende con l’immigrazione musulmana, portatrice di valori che minacciano quelli democratici della République. I riferimenti al regime collaborazionista di Vichy, durante l’occupazione nazista, o all’Algeria francese abbandonata da de Gaulle, spariscono. Vanno in soffitta.
Il Front National di Marine Le Pen si ispira al populismo dell’Europa del Nord. Per il super nazionalismo, per lo sciovinismo, si distingue invece dai separatisti, ad esempio dalla Lega italiana e dal Vlaams Belang fiammingo. Il comun denominatore è il rifiuto dell’Unione europea. I populisti gli devono larga parte del loro successo. In Danimarca hanno puntato dal ‘92 sull’antieuropeismo e sulla difesa dell’indipendenza del paese e dell’identità nazionale.
Per questo gli svedesi hanno respinto l’euro nel 2003.
Sempre l’eurofobia, più che l’euroscetticismo, è all’origine dell’ancora caldo successo dell’Ukip (United Kingdom Independence Party), che tre settimane fa ha ottenuto il 23% alle elezioni amministrative in Gran Bretagna, e al quale i sondaggi promettono il 20 % a quelle politiche del 2015. Se il pronostico si avverasse l’intero quadro politico sarebbe sconvolto. Ai tre partiti tradizionali (il conservatore, il laburista e il liberaldemocratico) se ne aggiungerebbe un quarto di dimensioni tali da modificare gli equilibri della democrazia britannica. L’obiettivo iniziale dell’Ukip, animato da Nigel Farage, era di far uscire il Regno Unito dall’Unione europea. Ma col tempo il programma si è appesantito, ha assunto un chiaro carattere populista: lotta all’immigrazione, ad ogni diversità che inquini la compattezza nazionale, e un discorso che cerca di trasformare in collera lo smarrimento della gente colpita dalla crisi economica.
La base elettorale dell’estrema destra populista conta anzitutto piccoli commercianti, artigiani, operai: è formata da strati della società in cui prevale un sentimento di declassamento, di smarrimento di fronte alla mondializzazione, che espone i singoli paesi alla concorrenza internazionale, e a un’Europa in declino che non sa proteggersi. La crescente disoccupazione è attribuita alla mancanza di difese efficaci. I partiti populisti non si augurano la fine dell’economia di mercato, né sono nemici del capitalismo. Vogliono un’economia nazionale controllata da uno Stato forte, capace di ristabilire le frontiere e applicare una politica protezionista. Condannano il potere delle banche, della finanza internazionale, che sottrae al popolo le sue naturali risorse. E se la prendono con i ricchi, con coloro che governano con la politica o con il denaro. (In questo quadro il movimento di Grillo potrebbe trovare uno spazio).
Alternativa per la Germania, l’Afd, la nuova formazione politica tedesca, alla quale viene attribuito dai sondaggi circa un quarto dell’elettorato, ha come obiettivo una dissoluzione progressiva dell’unione monetaria. Sostiene che la Germania non ha bisogno dell’euro e che l’Europa può sopravvivere alla sua scomparsa. L’Afd è un movimento conservatore. Tra gli animatori, economisti, accademici e intellettuali, non sono pochi quelli provenienti dalla Cdu di Angela Merkel. E quasi tutti negano di essersi ispirati al populismo dilagante, e ancor meno all’estrema destra radicale.
Ma sono rari coloro che si dichiarano apertamente populisti o di estrema destra. Sono rari soprattutto nei partiti della destra rispettabile, dove le tentazioni populiste sono vive e tenaci. E che si esprimono sollecitando più o meno apertamente alleanze con i partiti estremisti, tenuti ufficialmente fuori dall’“arco costituzionale” come si diceva tempo fa in Italia. Nelle competizioni elettorali il populismo è emerso a tratti, in modo evidente, in tanti paesi europei. Senz’altro con Sarkozy in Francia, e con Berlusconi in Italia. Due personaggi per altri versi incompatibili. La tentazione di una complicità con il Front National è ancora forte nell’Ump (l’Unione per un movimento popolare) di cui Sarkozy è stato il presidente. E in Italia la Lega populista e il Pdl hanno governato insieme per anni. Anche in Gran Bretagna molti conservatori auspicano un’alleanza con l’United Kingdom Independence Party. Questo è il secondo itinerario, oltre a quello dell’estrema destra, lungo il quale il populismo si infiltra nella vita
politica europea.
La Repubblica 20.05.13