Alimentazione, consumi energetici (acqua, luce, gas, benzina e gasolio), telefono e abitazione (affitto, mutuo), sono gli ambiti di spesa che incidono maggiormente sui bilanci delle famiglie a basso reddito. Sono anche i settori che – soprattutto gli alimentari e i beni energetici – hanno conosciuto il maggiore aumento dei prezzi in questi anni e che, quindi, hanno colpito in modo sproporzionato proprio le famiglie a più basso reddito. In altri termini, queste famiglie non solo sono state più vulnerabili delle altre alla perdita di reddito dovuta alla perdita o riduzione dell’occupazione. Hanno anche sperimentato in misura maggiore una diminuzione sensibile del potere d’acquisto del reddito su cui potevano contare e proprio rispetto ai beni più necessari: una alimentazione adeguata, potersi riscaldare, cucinare, illuminare l’abitazione, pagare l’affitto, mantenere quei rapporti minimi con l’esterno che non contribuiscono solo alla qualità della vita, ma sono indispensabili anche per mantenere o trovare un lavoro.
Se tra il 2005 e il 2012 l’indice armonizzato
dei prezzi al consumo è salito del 17,5%, se si considera il pacchetto di consumi specifici di famiglie con diversi livelli di reddito (controllando per ampiezza della famiglia), l’aumento risulta del 20,2% per le famiglie a più basso reddito, quattro punti percentuali in meno di quello (16.3) sperimentato dalle famiglie con i redditi più alti. L’aumento dei prezzi ha quindi ridotto in modo sensibile il potere d’acquisto di tutti, ma in misura molto maggiore quello dei più poveri, colpendo spese non voluttuarie, ma essenziali.
È quanto emerge da un’analisi dell’Istat, che non si limita a verificare il tasso complessivo di inflazione e neppure a disaggregarlo per settori merceologici e/o aree di consumo, ma stima la sua incidenza per bilanci e modelli di consumi familiari differenti.
Questi dati dovrebbero essere al centro delle decisioni di politica economica che il governo prenderà nei prossimi giorni e settimane, non solo per una ovvia questione di equità, ma anche per una banale questione di fattibilità. Le famiglie più povere non possono ridurre ulteriormente i
consumi, dato che hanno già intaccato quelli necessari. Ed anche quelle che stanno un po’ meglio, ma sono lontane dall’agiatezza, sono già al limite. Di conseguenza, qualsiasi intervento sull’Iva dovrà essere calibrato per non aggravare bilanci già messi a dura prova nei consumi essenziali. Analogamente, qualsiasi taglio alla spesa (ad esempio nella sanità, nella scuola, nei servizi di base) andrà calibrato per l’impatto che potrebbe avere sui bilanci famigliari più modesti. E qualsiasi decisione sull’Imu, uscendo dal facile populismo per cui la prima abitazione di proprietà è un bene da non tassare a prescindere dal suo valore e dal reddito di chi la possiede, dovrebbe concentrarsi principalmente sui proprietari a basso reddito ed eventualmente con una rata di mutuo pesante per il loro bilancio. Senza dimenticare che tra le famiglie a basso reddito sono concentrati gli affittuari. Questi non traggono nessun sollievo da politiche della casa rivolte solo ai proprietari. Hanno invece visto in questi anni assottigliarsi, e poi sparire, il Fondo nazionale per il sostegno all’affitto. La responsabilità delle politiche in questo settore è rimasta solo ai Comuni che, tuttavia, hanno visto diminuire i trasferimenti loro destinati e la stessa autonomia impositiva, come testimoniato dalle vicende dell’Ici prima, dell’Imu oggi.
Le conseguenze della riduzione di consumi importanti da parte delle famiglie in condizioni economiche più modeste possono avere effetti anche di lungo periodo, in particolare sulla salute e istruzione dei figli. È di questi giorni la notizia che in città come Torino sono diminuite le domande di iscrizione al nido. Perdita del lavoro di un genitore e importo della retta, per quanto modesta, scoraggiano le famiglie dall’offrire ai figli questa esperienza. Si tratta, di nuovo, delle famiglie economicamente più modeste. Ci si potrebbe rallegrare per questo risparmio per i bilanci pubblici. Ma che conseguenze avrà questo mancato investimento sui bambini, dato che sappiamo che un buon nido ha un impatto positivo importante sullo sviluppo cognitivo, soprattutto tra i bambini che appartengono ai ceti sociali più svantaggiati?
La Repubblica 20.05.13