La Rai commise l’imperdonabile errore di adeguarsi ai sistemi delle tv private tagliando dal palinsesto i programmi di minore ascolto, come ad esempio la prosa, vale a dire eliminando le trasmissioni più culturalmente impegnative. (da “Come la penso” di Andrea Camilleri — Chiarelettere, 2013 — pag. 220).
Oltre che “magistra vitae”, come recita la locuzione latina attribuita a Cicerone, la Storia può essere anche “maestra di televisione”: e in particolare, d’informazione e di approfondimento. Tanto più se parliamo di servizio pubblico radiotelevisivo. E questo è senz’altro il caso della trasmissione “La storia siamo noi” che, da dodici anni a questa parte, Giovanni Minoli ha condotto con successo fino ad aggiudicarsi nel 2012 a New York il premio HistoryMakers International, l’Oscar dei produttori televisivi di storia.
A distanza di appena un anno da quel prestigioso riconoscimento, ora il vertice della Rai intende “divorziare” da Minoli, con la motivazione o il pretesto che la struttura a lui affidata per i programmi sul 150° anniversario dell’Unità d’Italia va sciolta e che il giornalista è ormai in età di pensione. Ma in realtà quel format, inventato da Renato Parascandolo, fa parte del patrimonio della tv pubblica, dei suoi compiti e delle sue funzioni istituzionali. E perciò i nuovi dirigenti di viale Mazzini, anche a prescindere dal nome di chi eventualmente sarà chiamato a sostituire il conduttore, rischiano di cancellare un cespite della Rai con una furia iconoclasta da talebani televisivi.
La storia è la memoria di un Paese e di un popolo. La sua coscienza collettiva. L’archivio anagrafico della sua identità sociale e culturale. E perciò – quali che siano gli ascolti di questa trasmissione, peraltro più che lusinghieri – un servizio pubblico radiotelevisivo non può venire meno al dovere fondamentale di coltivare, aggiornare e tramandare quella memoria comune, a pena di rinnegare il proprio ruolo e la propria missione.
Nel lungo periodo in cui ha diretto e condotto il programma, Minoli ha interpretato un modello di tv pubblica che è ancor oggi valido e attuale. Fra le numerose puntate prodotte, per circa mille ore di trasmissione all’anno, resta memorabile – per esempio – quella sugli incidenti durante il G8 di Genova che meriterebbe di essere adottata nelle scuole o nei master di giornalismo televisivo. Ma già prima lui stesso aveva introdotto un’innovazione di rilievo come “Mixer”, poi chiuso – a quanto pare – su sollecitazione di qualche “mandarino” politico a causa di un’impostazione considerata troppo indipendente. Non c’è dubbio perciò che, anche al di là dell’età, la sua esperienza e la sua firma appartengano a buon diritto alla migliore tradizione del giornalismo televisivo italiano, da Sergio Zavoli ad Andrea Barbato, da Piero Angela a Corrado Augias, da Lilli Gruber a Bianca Berlinguer e Milena Gabanelli.
Al di là del “caso Minoli”, comunque, un fatto è chiaro: la Rai, se vuole sopravvivere, deve compiere un salto di qualità sul piano dell’informazione, dell’approfondimento e più in generale di tutta la sua programmazione editoriale. Insediato dal “governo tecnico” di Mario Monti, il vertice in carica non può continuare a gestire l’azienda soltanto all’insegna del rigore contabile, a colpi di tagli e riduzione di personale. Altrimenti, riuscirà anche a tenere in vita “La storia siamo noi” in formato ridotto e forse a far quadrare il bilancio. Ma, su questa china, il servizio pubblico è destinato comunque a non fare più storia, cioè a non incidere più nella cultura e nella coscienza civile del Paese.
Mentre i Cinquestelle si trastullano con la “querelle” sulla presidenza della Vigilanza sulla Rai, una Commissione parlamentare che invece andrebbe abolita proprio per cominciare a sottrarla al controllo politico, rimane intatta dunque la questione della “governance”: vale a dire di chi è legittimato a dirigere e gestire il servizio pubblico. Non sarà verosimilmente questo governo né tantomeno questa “maggioranza di necessità” a risolverla. Ma occorre quanto prima una riforma organica per passare finalmente dalla Rai dei partiti alla Rai dei cittadini.
La Repubblica 18.05.13