“In questo mondo nulla è certo tranne la morte e le tasse” scriveva Benjamin Franklin nel 1783. In questo governo l’unica cosa certa è la sua morte senza la sospensione della tassa sulla prima casa.
Non rimane perciò che sperare che quella che verrà oggi decretata sia una vera sospensione, in attesa di una riforma organica delle tasse sulla casa. È una speranza di quelle ultime a morire perché non si era mai visto prima di oggi sospendere una tassa per poi riformarla. Chi infatti avrà mai il coraggio di sospendere la sospensione soprattutto se questa dura a lungo?
Bene perciò rispettare i 100 giorni che il governo si è dato per riformare il prelievo sulla casa. Tre mesi e mezzo, non di più. Anche perché il decreto sull’Imu sta già scatenando le proteste di chi si sente discriminato. Ci sono innanzitutto le imprese che protestano perché pagano tasse salatissime sui capannoni industriali. Sono raddoppiate rispetto a quelle dell’Ici perché le imprese non votano e i Comuni hanno preferito aumentare le imposte sulle imprese piuttosto che aumentare quelle sulle famiglie residenti. Ieri è stata la volta di Confcommercio che alza la voce perché le tasse su alberghi e negozi non sono state sospese. Seguiranno a breve i proprietari delle seconde case, non sempre ricchi (il terzo di loro più povero ha gli stessi redditi di chi ha una sola casa, secondo l’indagine Banca d’Italia). Anche i proprietari di seconde case in genere non votano nei Comuni che li tassano e dunque, in nome del nobile principio secondo cui ci può essere tassazione solo senza rappresentazione (!), hanno assistito impotenti al forte incremento delle aliquote sulle loro proprietà. E che dire degli affittuari? Equità vorrebbe che venissero trattati come i proprietari: se la prima casa è un bene che non si può tassare, dovrebbero poter dedurre le spese di affitto nella dichiarazione dei redditi (o detrarle ad aliquota uguale per tutti dalle imposte dovute). Tutto questo ci dice anche che un’eventuale abolizione dell’Imu sulla prima casa rischia di aprire una voragine nei conti dello Stato (oltre che in quelli dei Comuni), con una perdita di gettito ben superiore ai 4 miliardi dell’Imu sulla prima casa. Pezzo dopo pezzo, può crollare tutto il gettito dell’Imu, una torta di 22 miliardi, attorno a un punto e mezzo di pil e bisognerà rimpiazzarlo con tasse sul lavoro. Se così fosse, sarebbero tra i 4 e i 5 punti di cuneo fiscale in più.
Nel rivedere le regole bisognerà anche procedere con estrema cautela, evitando il più possibile annunci fuorvianti. Se c’è un campo in cui la consegna del silenzio è d’obbligo, questo è quello della casa. È un bene che sta molto a cuore agli italiani, dato che l’80 per cento dei nostri concittadini ne possiede una. Inoltre è un bene poco liquido e indivisibile (non si può vendere un pezzo di casa) per cui ci vuole molto tempo per adattarsi a cambiamenti nella normativa. Il problema è che sta diventando un bene ancora meno liquido, molto difficile da vendere senza realizzare pesantissime perdite. Dall’inizio della crisi, il numero di compravendite si è dimezzato. E il crollo del mercato nella seconda recessione è diventato più ripido, quasi verticale: meno 25% di compravendite nel solo 2012, come abbiamo appreso due giorni fa dall’Agenzia delle Entrate (che ha assorbito l’agenzia del territorio).
Un modo per rivitalizzare il mercato consiste nel ridurre i costi per chi vuole vendere la casa di cui è proprietario per comprarne una più piccola. Ci sono molti pensionati che hanno investito la loro liquidazione e i risparmi di una vita in una casa di un certo valore e che oggi si ritrovano “house rich e cash poor”, con una proprietà immobiliare importante, ma illiquida, e un reddito molto basso. La cosa più ragionevole da fare sarebbe perciò ridurre fortemente le tasse sulla compravendita di immobili, anziché abolire l’Imu sulla prima casa. È un modo per mobilizzare ricchezza, perché rende più liquido il bene casa, e migliora al contempo la distribuzione del nostro patrimonio edilizio. Oggi una famiglia può essere disposta a vendere una casa a un prezzo anche significativamente inferiore a quello a cui era stata valutata 5 anni fa se può al contempo comprarsi un’altra casa a prezzi altrettanto scontati (il calo delle compravendite, e presumibilmente dei prezzi, sembra in molte città essere stato più forte negli immobili di piccole dimensioni). Se invece deve pagare il 3 per cento del valore catastale dell’immobile sia all’atto della vendita che a quello dell’acquisto, il gioco non vale la candela. Meglio stringere la cinghia e rimanere in una casa troppo grande per il proprio reddito (ricordiamoci che dall’inizio della crisi il reddito nazionale è calato del 10 per cento e quello pro capite ancora di più). Chi ha seconde case paga poi fino al 10 per cento di imposta di registro in aggiunta a un’Imu molto pesante e nessun ordinamento da paese civile prevede che il patrimonio venga tassato sia quando posseduto che quando ceduto. Il vantaggio di avere proprietà immobiliari più liquide ci sarebbe anche per le imprese. Renderebbe meno arduo il cammino volto ad aumentare il patrimonio delle nostre piccole imprese, che molti piccoli imprenditori stanno cercando a fatica di ricapitalizzare, come ci dicono i dati del Cerved. Immobili più liquidi possono inoltre essere più agevolmente utilizzati come garanzia per prestiti. Da ultimo, ma non certo per importanza, la minore tassazione delle compravendite andrebbe incontro alle principali vittime della crisi, i giovani, che potrebbero più facilmente comprarsi una casa e che oggi non beneficiano affatto della sospensione dell’Imu.
Un intervento sulle tasse sulle compravendite – anziché sulle tasse sulla proprietà – di immobili avrebbe vantaggi sul piano della gestione e della tenuta dei conti pubblici. Ha un costo inferiore all’abolizione dell’Imu e parte del gettito perso con una riduzione dell’aliquota verrebbe compensato dall’aumento dei volumi di compravendite. Inoltre non aprirebbe voragini nei conti dei Comuni, richiedendo trasferimenti compensativi dal centro. Il gettito dell’imposta di registro va infatti alle casse dello Stato, che può più facilmente ovviare ad eventuali riduzioni del gettito.
Infine, stimolando le compravendite si avrebbe la possibilità di allineare più rapidamente e con meno errori i valori di catasto a quelli di mercato. Già oggi, pur con volumi ridotti, si può stimare quanto valga, ad esempio, avere una casa vicino ai giardini pubblici oppure nei pressi di una stazione di una metropolitana. Con un mercato più spesso i valori sarebbero più attendibili e ci sarebbero più informazioni per rendere la tassazione della casa più equa. Oggi questa premia chi ha la fortuna di avere valori catastali molto vecchi, una distorsione che spesso opera in modo regressivo, tassando in proporzione al valore immobiliare effettivo meno i ricchi di quanto tassi i poveri. È anche per questo che l’Imu è oggi così odiata. Ma ridurla a zero è sicuramente meno equo che allineare i valori del catasto a quelli del mercato e abbassare le aliquote.
La Repubblica 17.05.13