Il governo Letta non è la garanzia di un salvacondotto per Berlusconi. La grande coalizione non è una deroga al principio di legalità. L’esecutivo è nato per rispondere a uno stato di necessità e a una duplice emer- genza: da un lato la drammatica crisi sociale e la necessità di risposte non convenzionali su sviluppo e lavoro; dall’altro il collasso del sistema politi- co, oggi privo persino di una legge elet- torale «legittimata».
Anche la giustizia è un problema da affrontare: ma Berlusconi non intende farlo. A lui interessano i processi che lo vedono imputato. Anzi, a lui interessa trovare il modo per sottrarsi al processo.
Ora il Cavaliere e il suo partito sono in preda a una crisi di nervi. Nei primi giorni del governo Letta, complice un Pd tramortito dal collasso delle presidenziali, Berlusconi sembrava il padrone della macchina. È bastato che nel Pd tornasse un minimo di consapevolezza sulle proprie responsabilità verso il governo, per aprire nel Pdl uno scontro politico: tra chi è sottomesso al Cavaliere al punto di considerare una priorità assoluta gli interessi processuali e chi invece comincia a pensare che un centrodestra dovrà pur esserci dopo Berlusconi e che anzi, a ben guardare, Berlusconi è molto più spompato di quanto non tenti di mostrare.
Bisogna scegliere. O si serve l’Italia, o non ha senso continuare questa esperienza. Enrico Letta ha fatto molto bene ieri nel dire che la legge sulle intercettazioni telefoniche (il vecchio ddl Alfano) non è nel programma e non è una priorità del governo. L’emergenza è il lavoro, cioè l’impresa che produce lavoro e i lavoratori che lo hanno perso. Si parte oggi con il decreto sull’Imu, sulla cassa in deroga, su questo primo intervento simbolico a carico degli stipendi dei ministri. Ma la vera prova di Letta sarà nei prossimi due mesi: dopo i necessari passaggi a Bruxelles, bisogna mettere in campo una terapia d’urto che rilanci la domanda interna, che aiuti le imprese ad assumere, che favorisca i giovani oggi senza futuro. Il governo deve fare questo. E su questo si gioca la vita. Chi ha secondi fini, è bene che lo dichiari subito. Non è sopportabile una polemica strisciante e permanente, che ha come obiettivo evidente tenere il governo e il Pd sotto scacco, sotto minaccia, per tentare di ottenere risultati non dichiarabili, e peraltro impossibili.
Il tema, in tutta evidenza, non è l’ineleggibilità di Berlusconi. Sul’Unità lo hanno scritto con nettezza sia Massimo Mucchetti che Giovanni Pellegrino. Restiamo convinti che la legge 361 del 1957 escluda l’eleggibilità di un signore, che è anche proprietario di un’azienda concessionaria dello Stato. Ma è evidente che una maggioranza politica non potrebbe oggi, senza esercitare violenza ai danni di tanti elettori, ribaltare il giudizio già espresso in sei legislature consecutive. Quel giudizio, peraltro, ha una forma e una natura para-giurisdizionale: e la prassi, i precedenti, in questo caso non possono essere trascurati da una coscienza democratica. Piuttosto viene da chiedersi se sia giusto che il giudizio sull’ineleggibilità, o sull’incompatibilità di un parlamentare venga affidato alle Camere, cioè alle maggioranze pro-tempore: la nostra risposta è che non è giusto. Che dovrebbe essere un organo imparziale, terzo, a decidere. Come la Corte costituzionale (anche se Berlusconi dirà che la Consulta è un soviet).
L’ineleggibilità non è materia di scambio. Resta il giudizio sulla forzatura che fece Berlusconi nel ’94. Ma nella sinistra non può non restare anche la fedeltà ad un costume di correttezza e di prudenza costituzionale, che nessuna polemica per quanto feroce può cancellare. Il Cavaliere tenga a mente che, per le stesse ragioni di coerenza, non potranno mai esserci deroghe «bipartisan» alle sentenze giudiziarie. È un’ipocrisia attribuire alle larghe intese il valore di una «pacificazione». Oggi il governo Letta è anzitutto un terreno nuovo di competizione tra destra e sinistra. L’auspicio è che la competizione si svolga anzitutto sulle soluzioni migliori per uscire dalla crisi. Ma se la competizione dovesse trasformarsi in un contorcimento, o peggio in un ricatto, per addolcire l’esito dei processi di Berlusconi, allora la rottura sarà inevitabile. Verrebbe da dire: se questo fosse l’intento del Pdl, sarebbe meglio rompere immediatamente.
Se fosse confermata la sentenza di Milano, con la relativa pena accessoria della decadenza di Berlusconi dai pubblici uffici, nulla e nessuno potrà opporsi all’esclusione del Cavaliere dal Parlamento. Forse lo avrebbe fatto il Parlamento che ha creduto a Ruby «nipote di Mubarak»: contiamo che questo Parlamento abbia maggiore dignità. E se la legge sulle intercettazioni non è una priorità, una priorità è invece dotare l’Italia di una efficace legge anti-trust sui numerosi e complessi conflitti di interesse, che ogni giorno emergono. Lo ha scritto Mucchetti: occorre inserire tra le cause di incompatibilità la proprietà personale o familiare, diretta o indiretta, compresa quella di azioni rilevanti ai fini del controllo societario: la legge del 1957 va superata e i conflitti di interessi non riguardano solo Berlusconi. Se ci fosse un centrodestra in Italia, se ne occuperebbero anche loro.
L’Unità 17.05.13