È il muratore di Vittoria che si è dato fuoco ieri quando la sua casa è stata messa all’asta perché non era in grado di restituire diecimila euro alla banca. Prima di lui riconosciamo l’uomo indebitato in tanti altri protagonisti dei gesti disperati di cui sono piene le cronache recenti. Ma non basta. Interi popoli, ormai, fra i quali gli italiani, vivono soggiogati dal debito. Una condizione esistenziale che li colpevolizza – siete voi stessi i responsabili della vostra disgrazia! – e li sollecita a modificare le proprie abitudini di vita attraverso una disciplina imposta. Prima ancora del sopraggiungere dell’indigenza, è la dottrina economica del debito, divenuta senso comune, ad ammonirci quotidianamente: non lavoriamo abbastanza, consumiamo troppo, godiamo di tutele sociali che non dovremmo permetterci. Ma davvero l’uomo indebitato deve rassegnarsi a chinare il capo e a prendersela solo con se stesso? È come se la crisi di un’economia globale fondata sul debito infinito, che si riverbera come debito sovrano degli Stati, debito privato delle imprese e debito individuale delle famiglie rimaste senza risparmi, ci costringesse a modificare il nostro sguardo sulle classi sociali. Anche i marxisti devono rivedere i loro schemi: la classica relazione capitale/ lavoro soppiantata dalla relazione creditore/debitore? Se pure il creditore non assume le fattezze prossime della banca o di Equitalia, esso incombe come entità sovranazionale che si fa beffe delle frontiere e ci travolge insieme al flusso dei capitali finanziari. Velleitaria, e pericolosamente reazionaria, sarebbe la pretesa di frenarlo col ricorso a barriere protezionistiche. Di conseguenza anche l’uomo indebitato si trasforma in figura trasversale, oltrepassa le tradizionali barriere sociali: può essere disoccupato o artigiano, operaio o imprenditore, precario o impiegato pubblico. Ma sempre uomo indebitato. Maurizio Lazzarato, autore del saggio La fabbrica dell’uomo indebitato (Derive/Approdi), sostiene che la fabbrica dei debiti, ovvero la costruzione e lo sviluppo di un rapporto di potere tra creditori e debitori, è il cuore strategico delle politiche neoliberiste. In altre parole, sarebbe l’esito naturale del predominio della finanza sui nostri sistemi economici. Ciò spiega perché, nella tempesta della recessione, il salvataggio delle banche è stato considerato prioritario rispetto al soccorso delle popolazioni in difficoltà: secondo questo schema, i governi vengono chiamati dal “Creditore universale” a imporre nel suo interesse sempre più deroghe ai diritti sociali: i cittadini devono rassegnarsi alla loro condizione di debitori. Da qui a sognare la rivolta dell’uomo indebitato come prossima forma che assumerà la lotta di classe, il passo è breve, nelle intenzioni dei pensatori rivoluzionari. Ma la realtà mal si presta a simili slogan. Se è vero infatti che il debito incide profondamente nella soggettività di chi ne è afflitto, presentandosi a lui come limitazione insuperabile e condizione eterna, l’effetto immediato è la disperazione sociale. Depressione, vergogna, solitudine, rabbia. Istinto autodistruttivo – come nel caso di Giovanni Guarascio che ha trascinato con sé nel fuoco anche la moglie, la figlia e due agenti di polizia – oppure volontà di rivalsa quando subentra il bisogno di individuare gli artefici della propria disgrazia: di volta in volta i politici, gli esattori del fisco, i banchieri, i funzionari pubblici, gli immigrati. Il pericolo poi è che entri in azione qualche imprenditore politico della disperazione, abile nel riversare su un nemico interno o esterno la responsabilità del debito insolvibile. Per secoli l’antisemitismo si è nutrito di simili pulsioni, ma domani potrebbe toccare ad altri divenire vittime dell’odio di altre vittime. L’uomo indebitato si sente ripetere dai leader di paesi più “virtuosi”, e dai tecnocrati nostrani prestati alla politica, che potrà salvarsi solo “facendo i compiti a casa”. Ma intanto perde la casa, come dimostrano anche le cifre del crollo del mercato immobiliare. La società si divide fra chi è ancora in grado di usare una carta di credito, restando così associato al mondo della finanza, e chi invece quel credito nominale l’ha perduto. Insieme al disagio sociale, ne deriva una nuova psicologia del debito privato come condanna esistenziale. La filosofa Elettra Stimilli ( Il debito del vivente, Quodlibet) individua le radici culturali di tale condizione nella natura stessa del capitalismo. Cita Walter Benjamin che nel pieno della crisi della Repubblica di Weimar, travolta dai debiti di guerra, additava il capitalismo come la più estrema delle religioni: «Il capitalismo è il primo caso di un culto che non redime il peccato, ma genera colpa… Un’enorme coscienza della colpa, che non sa rimettere i propri debiti». È ben noto che in tedesco la parola schuld si adopera ugualmente per dire debito e per dire colpa. Poco importa processare a ritroso il ricorso capitalistico all’economia del debito nel corso della sua storia. Resta il fatto che al giorno d’oggi l’uomo indebitato è una figura sociale talmente generalizzata da farci dubitare che accetti di sentirsi colpevole ancora a lungo. Nel frattempo il debito pubblico italiano ha raggiunto a marzo la cifra record di 2.034,725 miliardi di euro.
La Repubblica 25.05.13
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