Lo scorso 24 aprile è avvenuta l’ennesima strage sul lavoro, a migliaia di chilometri da qui. Mi riferisco al crollo del Rana Plaza di Dhaka, la capitale del Bangladesh. Il palazzo in cui lavoravano più d 3000 persone, in maggioranza giovani donne, è venuto giù di schianto, seppellendo un numero ancora imprecisato di corpi. Ad oggi ne sono stati estratti 1125. I feriti sono circa 2.500. Che nessuno parli di fatalità. Il Bangladesh è noto come uno dei Paesi al mondo con le peggiori forme di sfruttamento anche minorile, i salari più bassi (tra 30 e 60 euro al mese), scarsissimo rispetto delle norme di tutela del lavoro, bassa percentuale di sindacalizzazione e inosservanza degli standard minimi; sono solo 18, tra ispettori e loro assistenti, gli addetti a verificare l’applicazione della legge sul lavoro, il Bangladesh Labour Act del 2006. Non è una fatalità, quella del Rana Plaza è un’altra tragedia ampiamente preannunciata, figlia della stessa miseria che spinge le persone, a Barletta come a Dhaka, ad accettare condizioni di lavoro indegno e di sfruttamento, dietro il ricatto della sopravvivenza quotidiana. Tanti cassintegrati italiani, tantissime lavoratrici e lavoratori, innumerevoli piccoli imprenditori hanno imparato a conoscere molto bene i motivi per cui le vicende di «quell’altra parte del mondo» riescono a stravolgere la nostra quotidianità. L’apertura, incondizionata e purtroppo da troppe voci celebrata, dei mercati globali ha spinto tantissime aziende a delocalizzare la propria produzione e tante multinazionali a dirottare le proprie commesse in Paesi come il Bangladesh. Laddove, cioè, i predatori globali hanno la possibilità di produrre a costi vicini allo zero. Non a caso le aziende tessili del Rana Plaza producevano per l’export, al 60% per l’Europa, proprio in quell’anello che circonda Dhaka, dove per un raggio di oltre 50 km si sono moltiplicate le fabbriche tessili. In Bangladesh la collera delle famiglie ha invaso le strade, stanno aumentando le proteste e crescono le tensioni e le manifestazioni di massa. Le autorità hanno arrestato per omicidio il proprietario, il direttore generale e due ingegneri delle fabbriche di abbigliamento, che si trovavano all’interno dell’edificio di otto piani. Una missione di alto livello dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Od), agenzia tripartita delle Nazioni Unite competente in materia di lavoro, si è recata in Bangladesh dove ha convenuto con governo e parti sociali un piano nazionale di azione articolato con iniziative a breve e medio termine, quali la riforma della legge sul lavoro, da proporre al Parlamento entro giugno 2013, con miglioramenti sull’esercizio dei diritti fondamentali di associazione sindacale, contrattazione e tutela della salute e della sicurezza. L’Oil ha impegnato il governo del Bangladesh a chiedere che le imprese coinvolte nei disastri degli ultimi sei mesi rispondano delle loro omissioni e negligenze ed ha richiamato i marchi e i committenti internazionali ad assumersi la propria responsabilità per il miglioramento delle condizioni di lavoro, della salute e della sicurezza. L’organizzazione International labour rights Forum e la campagna «Abiti puliti» in Italia intanto hanno sollecitato tutte le imprese operanti nel Paese asiatico a sottoscrivere il Bangladesh Fire and Building Safety Agreement, l’accordo che le impegna a garantire standard minimi di salute e sicurezza degli impianti industriali, ma gran parte delle imprese italiane non risultano tra le firmatarie di tale documento. La realtà ci dimostra che occorre un chiaro impegno da parte delle istituzioni per affermare e tutelare i diritti fondamentali della persona, ancora violati e negati, come quelli sulla dignità del lavoro, il diritto ad un salario equo che consenta di vivere decorosamente, il diritto di iscriversi al sindacato, di contrattare sulla retribuzione, il diritto a tutelare la propria integrità psico-fisica sul lavoro e il diritto a lavorare in sicurezza, senza pagare con la vita. Qui come altrove. Per questo, occorre che il nostro governo assuma delle iniziative concrete nelle competenti sedi internazionali per assicurare il rispetto dei diritti di tutti i lavoratori, anche nei Paesi di nuova industrializzazione e in particolare quelli in cui operano le imprese italiane, facendo sì che le stesse che subappaltano lavoro nelle fabbriche di abbigliamento, siano tenute sempre e comunque a verificare il rispetto degli standard internazionali del lavoro, a partire dalle convenzioni fondamentali. E questo prima di tutto per dare senso e coerenza alle parole, a cominciare dall’universalità dei diritti umani. Poi, se anche questa motivazione non fosse sufficiente, per un riequilibrio al rialzo delle condizioni di concorrenza. Lavorare affinché, oltre ai mercati, siano globalizzati anche i diritti vuol dire, allo stesso tempo, rendere il mondo un posto migliore e offrire ai nostri lavoratori ed alle nostre imprese la possibilità di accedere ai mercati globali in condizioni di maggiore parità, dischiudendo loro uno spiraglio di speranza per il futuro. Il lavoro è la priorità: lo hanno detto tutti e in tutte le salse. Ora però è il tempo di gettare lo sguardo oltre la siepe nazionale, se pur in colpevole ritardo nonostante i tanti allarmi degli anni passati.
*Deputata PD
L’Unità 15.05.13