Ha fatto molto bene la figlia di Enzo Tortora, Silvia, a chiarire a Silvio Berlusconi che suo padre «si difese nel processo e non dal processo», che «si dimise da parlamentare e andò ai domiciliari». Insomma, che è «blasfemo» Berlusconi nel paragonarsi a lui. Punto. Ma se Silvia Tortora ha pienamente ragione, non ne ha chi vorrebbe Berlusconi già in galera. Perché si mette – in materia di garantismo – sullo stesso piano dell’ex premier il quale pretende di essere considerato «di per sé» innocente. Lo scandalo della giustizia in questo nostro infelice Paese non è dato dal fatto che un potente venga processato (in qualche caso assolto, in qualche altro prescritto e in qualche altro ancora condannato), bensì dal fatto che i processi di ogni tipo durino, per i poveracci anzitutto, anni e anni, non dando tempestivamente ragione a chi ce l’ha.
In un altro Paese un esponente politico di primissimo piano come Berlusconi avrebbe lasciato ogni incarico politico. Mai avrebbe, in ogni caso, pensato di organizzare manifestazioni di piazza contro i propri giudici, contro i propri processi, coinvolgendo in esse il ministro dell’Interno nonché vice-presidente del Consiglio in carica. A Berlusconi che tuona dalla tribuna contro i magistrati siamo abituati, quasi assuefatti. Al titolare del Viminale che sale sullo stesso palco, no. È la prima volta in assoluto ed è una scandalosa, destabilizzante novità per le nostre istituzioni. Quale imparzialità potrà assicurare l’onorevole Alfano a tutti noi nell’esercizio di una funzione delicatissima qual è quella della sicurezza, dell’ordine pubblico, della tutela quotidiana dei diritti civili?
E quale «tregua nazionale» potrà il Pdl garantire ad un nuovo e inedito governo che i risultati elettorali del Senato e l’indisponibilità del Movimento di Grillo a qualunque accordo preventivo, anche circoscritto, hanno reso «necessario»? Un governo Pd-Pdl fortemente voluto, a parole, da Silvio Berlusconi, ma da lui contraddetto puntualmente nei fatti. Il Pd ha già pagato un prezzo molto alto alla lealtà dimostrata, a differenza di Berlusconi, verso il governo Monti. Verso un premier che poi, improvvidamente, ha voluto correre alle elezioni in prima persona, ottenendo uno scarso successo e tuttavia togliendo al Pd una quota di elettorato forse decisiva nel complicato gio- co dei premi regionali di maggioranza e di minoranza al Senato. Per questo il Pd, costretto alle «larghe intese» per non far precipitare una situazione sociale, occupazionale, imprenditoriale scandita da fallimenti, chiusure, licenziamenti, suicidi, deve davvero guidare e non subire il governo del quale il proprio vice-segretario, Enrico Letta, ha assunto con energia, con lucido coraggio, il timone. Nelle condizioni difficili che sappiamo e che manifestazioni come quella berlusconiana di Brescia rendono impervie. Per questo ha bisogno di avere alle spalle un partito e non un assemblaggio di gruppi e correnti dove chi prima si sveglia prima dichiara, spara, rivendica, si differenzia, dove chi aveva annunciato di lasciare la politica, è più che mai presente, dove l’ultimo arrivato in Parlamento, se non apre la sua polemica quotidiana, non si sente «qualcuno». Pen- si a dare un serio contributo in commissione. Capirà cos’è davvero il lavoro oscuro, duro, formativo di un parlamentare.
Sabato il Pd – pur attaccato da ogni lato, da gran parte della stampa (quella che una volta si chiamava «grande stampa» oggi ridotta spesso ad un miope cabotaggio, all’autoconservazione) – ha trovato un largo accordo per eleggere segretario un dirigente che ha un limpido passato di buoni studi (e non è poco, fra tanti «ripetenti» di luoghi comuni, esperti di Twitter e poco altro), di impegno sindacale serio e concreto partendo dai luoghi dell’informazione, di guida sicura, infine, della sola grande organizzazione di massa – diciamolo fuori dai denti – rimasta a questo Paese e alla sinistra riformatrice, la Cgil. Spero solo che subito non lo ostacolino nel Pd quanti temono, da provinciali, di «morire socialdemocratici». Come se le socialdemocrazie, in giro per l’Europa, si fossero macchiate di chissà quali colpe e non avessero invece garantito libertà, giustizia, diritti, welfare, lavoro, città vivibili, spesso una buona urbanistica (zero consumo di aree verdi nella Londra di Ken Livingstone). Per Guglielmo Epifani – che conosco bene da anni e che ricordo amico fraterno, quale ero anch’io, di Walter Tobagi, cattolico e socialista, vittima delle Br – non sarà facile. Come non lo è per Enrico Letta. Dovrà spiegare presto e meglio alla base perché non c’era alternativa – nella situazione che si era purtroppo determinata dopo la rimonta elettorale di Berlusconi e dopo il successo (del tutto sterile per ora) di Grillo – a questo governo «di necessità». Che però bisogna cercare di far funzionare il più possibile sul piano del rilancio economico, delle riforme a partire da quella elettorale. Con meno divismo e meno isteria anche nei quadri emergenti del Pd.
Con più umiltà, concretezza, capacità di produrre idee e non solo parole, parole, parole. Oltre tutto c’è un obiettivo immediato: appoggiare a fondo Ignazio Marino per riconquistare, dopo la Regione Lazio, il Cam- pidoglio dove Alemanno fu accolto da una selva di saluti romani e che risulta scosso da un quinquennio di disamministrazione, di scandali, di clientelismo, di aziende e servizi pubblici al collasso. È forse troppo poco?
L’Unità 13.05.13