La legge elettorale è un’emergenza democratica ed anche il banco di prova sulle reali intenzioni di questo governo. Vuole essere conseguente con lo stato di eccezione che lo ha generato oppure ha voglia di tirare a campare? Se l’emergenza nazionale è insieme economica, politica ed istituzionale, mettere rimedio al porcellum non è meno urgente delle misure che si impongono per rilanciare lavoro e investimenti.
Un Paese senza un sistema elettorale conforme a Costituzione e riconosciuto dai cittadini è semplicemente privo di agibilità democratica. Orfano delle stesse precondizioni di una democrazia occidentale.
E sarebbe davvero grave se il nuovo esecutivo dovesse cedere alla tentazione di affidare la propria durata non all’utilità degli interventi urgenti cui è chiamato, ma alla oggettiva impossibilità di rimandarci alle urne con l’attuale legge elettorale. Grave ed odioso: ci sentiremmo sudditi- sequestrati più che cittadinigovernati.
Enrico Letta ne sembra consapevole avendolo messo tra le priorità nel discorso programmatico. A prescindere da eventuali e più complessive riforme meglio è comunque togliere di mezzo questa legge elettorale inguardabile e incostituzionale e far rivivere quella precedente (il mattarellum) che aveva dato buona prova di sé. Il nuovo premier ha ripetuto l’obiettivo anche nella sua prima apparizione televisiva intervistato da Fabio Fazio davanti a milioni di italiani.
Ora però si tratta di passare dalle parole ai fatti.
Purtroppo le ragioni per diffidare dei buoni propositi non mancano. I partiti tradizionali hanno dato prova di predicare bene e razzolare malissimo sul tema. Si è fatto finta di lavorare alla riforma per poi offrire pannicelli caldi come improbabili primarie ridotte a foglie di fico per scelte di apparato che infatti gli elettori non hanno in alcun modo sentito come proprie. E si è finiti come apprendisti stregoni, paralizzati e sconfitti da quel porcellum di cui si sperava di approfittare.
Quanto ai nuovi arrivati, anche della effettiva volontà del Movimento Cinquestelle è lecito dubitare perché in realtà il porcellum calza a pennello a Beppe Grillo, in quanto azzera l’importanza dei candidati sul territorio ed esalta il ruolo del guru e padre- padrone.
Ed allora, contrariamente a quel che dice una superficiale retorica, la materia non sta nelle esclusive mani del Parlamento, ma all’iniziativa del governo che qui si gioca la carta preliminare della sua credibilità. Non è difficile intuire che ad agitare i sonni di ministri e sottosegretari vi sia che un cambiamento urgente delle legge elettorale finisca con l’agevolare un sollecito ritorno alle urne, ponendo ulteriormente in luce la scarsa legittimazione di un Parlamento di nominati, scempiato da un premio di maggioranza abnorme che alla Camera ha dato il 55 per cento dei seggi a partiti bocciati da oltre due italiani su tre.
Ma provvedere subito si deve perché alla fine ricondurre il Paese ad una normalità democratica dovrebbe essere la prima e più ambiziosa missione di questo esecutivo, pur coincidendo con l’esaurimento del suo compito di eccezione. Peraltro, come espressamente ammonito dal Consiglio di Europa, l’intervento sulle norme elettorali trova maggiore legittimazione proprio quando non ci si trova all’estremo ridosso di un ritorno alle urne, atteso che altrimenti è come cambiare le regole in corsa, per non dire che qualsivoglia ipotesi verrebbe a quel punto guardata con le sole lenti deformanti dei sondaggi di giornata.
Anche per questo il governo ha il dovere di garantire immediatamente, diremmo prima di ogni cosa, l’abolizione del porcellum. Che non può più essere bloccato dal dibattito su quale diverso sistema adottare. Nè può essere il paravento per forzare riforme costituzionali palingenetiche quanto confuse.
L’evidente incostituzionalità della norma attuale (segnalata di recente anche dal presidente della Consulta) giustifica pienamente un intervento con decreto d’urgenza che se non può spingersi a fare opzioni su sistemi diversi, può senz’altro abolire la norma-porcata ripristinando il mattarellum e costringendo il Parlamento a pronunciarsi nei 60 giorni imposti per la conversione del decreto.
Nessun tecnicismo elettorale è perfetto. Ed è decisiva la concreta prassi applicativa che ne fanno i partiti. Ma è certo che nessun sistema è peggiore di quello che noi abbiamo oggi. Superarlo è un obbligo prioritario di un governo che vuole essere di salvezza nazionale e che peraltro solo in questa fase di avvio può sperare di imporsi a partiti riottosi. Salvo non voglia replicare, persino in brutta copia con l’aggravante della spartizione partitica, la parabola non proprio esaltante del governo Monti.
La Repubblica 09.05.13