Con la forza della disperazione Elena ci sbatte in faccia la realtà. Dice, in diretta tv a Piazza Pulita, dietro il cancello della sua fabbrica in crisi: «Non abbiamo nemmeno dieci euro per pagare i ticket».Poi aggiunge: «State distruggendo la nostra dignità, si sono spenti tutti i nostri sogni…». È una storia, una delle tante, di un Paese che vive in modo drammatico un passaggio difficile e che misura la distanza tra la realtà e l’immaginazione, tra la vita vera e le alchimie di certi discorsi pubblici. Sembra di vedere un’Italia sottosopra, dentro la quale le immagini reali sbiadiscono: chi ha perso il lavoro o non lo trova, chi ha chiuso la sua azienda e chi ha scoperto una condizione che allude a un moderno esodo. In questa lunga transizione italiana si sono persi i punti cardinali. Il voto di febbraio non ha fatto che accentuare questa anomalia. A una campagna elettorale che pure aveva messo al centro i problemi del Paese con la speranza di un cambiamento possibile, è seguita la stagnazione con le sue piccole guerre di posizione e i tranelli, in segreto o in diretta streaming. Il governo Letta è il risultato di necessità di questo stallo. Per il nuovo premier – e per il Pd sia nel governo che in Parlamento, dove ha la maggioranza – la scommessa si gioca sulla capacità di rimettere il Paese con i piedi per terra. O si riesce o si fallisce. E si riesce solo se si è capaci di parlare a quelle come Elena. Se ci si sporca le mani con la realtà e si trovano le soluzioni giuste per ridare fiato al riscatto nazionale.
La sinistra è nata per questo, non per farsi imbrigliare nei giochi di società dei salotti buoni, dove non siedono mai né i disoccupati, né gli esodati, né gli imprenditori falliti. Se l’unico metro per definirsi sinistra diventa il pur importante destino giudiziario di Berlusconi o le sue vicende personali, non ci sarà rifondazione che possa fermare il declino. La sinistra ha un senso perché deve rappresentare un blocco sociale, ma se quel blocco sociale si assottiglia, se nella comunità progressista non entrano nuove figure e nuovi mondi non sarà possibile ritrovare la strada. Qui sta il cuore del rilancio del Pd: bisogna affrontare il tema dello «scarto tra l’immagine che si ha di sé e la condizione reale» di cui parla Franco Cassano in queste pagine, oppure si continuerà a girare a vuoto. Bisogna domandarsi – e poi darsi risposte credibili – perché molti giovani non scelgono la sinistra, perché i lavoratori autonomi se ne tengono alla larga e tanti operai preferiscono altre strade per esprimere il loro disagio. Perché, alla fine, questi soggetti non si fidano e la sinistra rischia di restare senza popolo.
Forse la sinistra ha smesso di ascoltare le voci dei suoi referenti sociali (quelli vecchi e quelli nuovi) e ha preferito cullarsi nell’immaginazione del potere. A volte ha pensato che bastasse qualche abile mossa per condurre alla vittoria. In altre occasioni ha creduto che un buon leader potesse sistemare ogni cosa. E in questo viaggio ha perduto il senso del reale e non è stata capace di produrre idee forti per il futuro del Paese che contrastassero il pensiero unico liberista. Non è stata in grado di fronteggiare il cambiamento che la globalizzazione e il dominio della finanza hanno prodotto sulle dinamiche sociali. È un deficit serio di egemonia politica e culturale. Non a caso lo scontro che si è aperto nel Pd riparte dalla domanda inziale: chi siamo e che cosa vogliamo?
Questo è il vero nodo che la sinistra deve sciogliere. Evitando di oscurarlo per il bene del partito o costringendo alla convivenza posizioni contrastanti attraverso gli equilibrismi. Deve rimettere il Paese con i piedi per terra, usando la propria forza nel governo e in Parlamento per ottenere risultati visibili e imporre i temi del lavoro, dell’emergenza sociale, del destino dei giovani. E rimettere il Pd con i piedi per terra. Al di fuori di questo l’esperienza della sinistra rischia di diventare una nobile testimonianza. Ma la sinistra non è nata per testimoniare, anzi contro il «settarismo dei testimoni» ha condotto le sue più belle battaglie. È nata, invece, per cambiare un mondo disordinato con le armi della giustizia sociale e dell’uguaglianza, dando rappresentanza agli ultimi, conducendo sulla scena la forza di cambiamento di chi lavora, produce, porta nuove idee. Non ci sarà mai funzione nazionale del Pd senza una nuova «immersione sociale» e una altrettanto nuova capacità progettuale. Ecco, vorremmo che l’assemblea nazionale del Pd discutesse anche di questo e non si dividesse solo in una battaglia sui nomi. Nomina sunt consequentia rerum, dicevano i latini. Dietro i nomi devono esserci le cose. Altrimenti, non basterà un bel nome a far ritrovare la spinta per rialzare la testa.
L’Unità 08.05.13