Perplessi. Sconcertati. Sprezzanti. Compassionevoli. Ma alla fine, non veramente interessati. E�� questo il genere di parole e di frasi che mi è venuto in mente quando, nel corso di una visita a Delhi, ho chiesto a banchieri, funzionari, diplomatici e giornalisti che cosa ne pensassero della crisi europea.
Sono stato in India per tenere una conferenza sulle tendenze economiche globali a un pubblico prevalentemente asiatico, che s’incontrava a Delhi per la riunione annuale della Banca asiatica di sviluppo, l’agenzia di prestito pubblico regionale. Da patriota europeo avrei voluto essere positivo sull’Europa e scoprire che al pubblico importava dove stiamo andando. Sono stato deluso su entrambi i fronti.
In parte perché, com’è naturale, le preoccupazioni locali oscurano sempre quelle globali. L’India è in difficoltà per la deludente crescita economica, gli scandali legati alla diffusa corruzione, un governo inefficace e una sensazione generale di disfunzione politica. Un po’ come l’Italia, in effetti, tanto più che il ruolo politico di primo piano di Sonia Gandhi sollecita il paragone. Dietro al disinteresse per l’Europa, tuttavia, c ’è di più che semplici preoccupazioni locali.
Alcuni di questi motivi hanno a che fare con quella parola tedesca, Schadenfreude, il piacere che si prova per le difficoltà altrui. Gli indonesiani, in particolare, ricordano ancora con amarezza una fotografia che risale alla crisi finanziaria Est-asiatica del 1997-98, quando l’allora capo francese del Fondo monetario internazionale, Michel Camdessus, si fermò davanti al presidente di quel Paese, a braccia conserte, come un conquistatore imperiale, insistendo affinché gli indonesiani accettassero l’austerità fiscale come unica possibile soluzione.
La via d’uscita dalla crisi finanziaria dell’Est asiatico in conclusione dipese da alcuni Paesi asiatici che ignorarono o evitarono le prescrizioni fiscali del Fondo monetario internazionale, cercando di chiudere o rimettere in sesto le banche in difficoltà il più rapidamente possibile. La Corea del Sud, la Thailandia, l’Indonesia, la Malesia e altri passarono ancora anni difficili ma poi si ripresero alla grande.
Certo, furono aiutati da un’economia globale in piena espansione e in particolare dalla rapida crescita delle vicine Cina e India. Nel caso dell’Indonesia, l’instabilità politica e la guerra civile hanno fatto sì che ci sia voluto molto più tempo prima che la stabilità, e in effetti la democrazia, si affermassero e l’economia recuperasse. Tuttavia, quest’esperienza della propria crisi finanziaria, appena 15 anni o giù di lì, implica che gli asiatici sentano poca simpatia per la situazione in Europa.
Ammirano di più il modo in cui l’America, ampiamente accreditata come avviata a un inevitabile declino dopo il fallimento di Lehman Brothers del 2008, si è ripresa, ha ripulito le sue banche e ora è sulla via della ripresa, con un tasso di disoccupazione sceso a un livello di oltre un terzo inferiore a quello della zona euro (7,5% contro il 12,1%), una rivoluzione energetica in atto, e persino il settore manifatturiero in fase di recupero.
Sì, l’America ha un sacco di debito federale, ma il dollaro resta globalmente dominante e l’importante caso della California ha mostrato agli altri intorno alle coste del Pacifico come uno stato americano che appena un anno fa sembrava finanziariamente in bancarotta e politicamente paralizzato possa improvvisamente riprendere la rotta e persino equilibrare le sue finanze pubbliche. Allora, dove è l’equivalente europeo? La Grecia? No. L’Italia? No. La Spagna? No. Forse l’Irlanda, ma è troppo piccola per essere significativa, le sue dimensioni sono all’incirca quelle di un sobborgo di Pechino o Delhi. No, in Asia la storia europea è molto più difficile da raccontare di quella americana. È difficile spiegare perché gli europei, governo britannico incluso, pensino che la contrazione fiscale universale, indipendentemente dai fondamentali economici di ciascun Paese, possa condurre alla rinascita. Appare evidente agli asiatici come questo, unito a una moneta unica in una zona commerciale strettamente integrata, abbia ogni probabilità invece di rafforzare reciprocamente la recessione, che è proprio quello che sta accadendo.��
Il visitatore europeo risponde che c’è qualche speranza che quest’implacabile politica di austerità possa essere modificata dopo settembre, una volta che il cancelliere tedesco Angela Merkel sia stata rieletta o inaspettatamente sconfitta. Dopo tutto, il presidente Enrico Letta ha chiesto un cambiamento in questo senso. Ma non appare convincente in un momento in cui nel nostro continente le forze politiche in ascesa sono partiti anti-europei come il Movimento Cinque Stelle, Alternativa per la Germania e l’UK Independence Party, che si presentano come distruttori piuttosto che salvatori.
Ancora più difficile da spiegare è perché le economie europee abbiano, in molti casi da forse 20-30 anni, perso la capacità di evolvere e di adattarsi in modo flessibile ai cambiamenti della tecnologia, ai mercati globali e ai gusti dei consumatori, mentre l’America ha mantenuto quella capacità. Si usava rispondere che l’Europa rispetto agli americani ha privilegiato la stabilità sociale e così abbiamo organizzato le nostre società ed economie di conseguenza. Ma anche da un punto di osservazione distante, come Delhi, un asiatico vede che non vi è traccia di disordine sociale sul fronte americano dell’Atlantico mentre se ne scorgono molti segnali in Europa.
Se questo era il nostro sogno europeo, quindi, i miei interlocutori asiatici non ci hanno mai creduto troppo: sono usciti dalla povertà da troppo poco tempo per avere molta fiducia nel welfare e nella presenza forte del governo, anche se i politici indiani si avvicinano di più a questo modello. Ora, però, guardano l’Europa e si chiedono se il sogno non potrebbe presto trasformarsi in un incubo dove il contratto sociale diventa conflitto sociale e la conciliazione nazionale si dissolve tra reciproche recriminazioni. No, no, ha detto questo visitatore europeo. Come l’Italia, l’Europa forse è in coma, ma può risvegliarsi. La volontà di fare in modo che avvenga rimane forte, e le caratteristiche che in passato hanno fatto dell’Europa il leader mondiale – inventiva, volont à di abbracciare le nuove idee, capacità di dialogo, desiderio di esplorare il mondo – esistono ancora. Noi, come l’America, dobbiamo accettare un relativo declino dal momento che il meraviglioso sviluppo di Asia, Africa e America Latina lo rende aritmeticamente inevitabile. Ma non c’è ragione per cui dovremmo affrontare un assoluto declino, né esiste alcun motivo per cui l’Europa non debba rimanere tra i leader politici, tecnologici e culturali del mondo.
Forse, dicono i miei amici asiatici. Speriamo. Ma alla fine, come risulta evidente nella maggior parte delle discussioni in Asia, a loro non importa. Sì, visiteranno l’Europa per la sua storia e la sua cultura. Ma manderanno i loro figli più brillanti nelle università americane, piuttosto che in quelle europee che giudicano di secondo o terz’ordine. O li faranno studiare a casa nelle università asiatiche che stanno migliorando in fretta. L’Europa? Come cantava Doris Day: «Que serà, serà».
Traduzione di Carla Reschia
La Stampa 08.05.13