È difficile dire se ci riuscirò; per far approvare la legge bisogna lavorare sul buon senso e sul dialogo, trovare le persone sensibili». Così ha detto la ministra per l’Integrazione, Cécile Kyenge.
Bellissima considerazione che ha suscitato forti polemiche da parte di esponenti politici del Pdl come il senatore Renato Schifani, il quale ha rivolto un appello al premier Enrico Letta «affinché inviti i suoi ministri a una maggiore sobrietà, prudenza e cautela» perché, sottolinea il candidato Pdl alla presidenza della Repubblica, questi annunci «non rientrano nel programma» del governo. Segno evidente di una differenza non piccola, una delle tante probabilmente, tra i partner di questa complicata coalizione. L’onorevole Kyenge richiama l’attenzione su quelli che dovrebbero essere gli ingredienti del dialogo pubblico in una democrazia matura: buon senso e sensibilità. Ingredienti che hanno fatto difetto in questi ultimi anni di polemica politica la quale ha nutrito, invece che stemperare, pregiudizi antirazziali. Quello degli immigrati è uno status che va affrontato con buon senso e sensibilità. È questo che sta a cuore alla ministra e a molti italiani che si riconoscono nelle parole del presidente della Repubblica, il quale ha detto che è «una follia che i figli degli immigrati che nascono qui non siano italiani ». Una follia, l’opposto del buon senso e della sensibilità.
Perché è così difficile far sì che anche da noi come nella maggior parte delle nazioni occidentali a democrazia consolidata valga il principio dello
ius soli nell’attribuire la cittadinanza?
Ius soli significa una cosa di grandissima importanza: che il centro di gravità dell’appartenenza politica è la persona, non la sua famiglia, non la nazione o l’etnia di appartenenza, non il colore della pelle. Un fatto di coerenza con i fondamenti della democrazia, la quale ai suoi cittadini chiede solo una competenza: quella di essere attori responsabili delle proprie azioni, e per questo punibili. Se siamo responsabili delle nostre azioni allora siamo competenti abbastanza per decidere. Su questo ragionamento basilare riposa l’idea dell’eguaglianza politica. Già dall’avvento della democrazia moderna questa disposizione giuridica all’inclusione apparve chiara se è vero che durante la Rivoluzione francese fu deciso che bastava un anno di residenza per avere il diritto di voto.
Oggi in Italia, quanti sono coloro che, nati qui, sono costretti in un’identità che è a loro estranea, quella che corrisponde a una lingua che, in moltissimi casi, nemmeno conoscono o parlano più? Nelle scuole elementari studiano la storia del nostro paese “come se” fosse quella del loro paese: studiano di Garibaldi e Mazzini, di Cavour e della Costituzione della Repubblica italiana; eppure quando compiono la maggiore età non possono votare né hanno diritto a sedere nelle giurie popolari. Di quale paese è la storia che hanno studiato? Ecco perché la richiesta della ministra è di buon senso e sensibilità.
Lo è ancora di più in un paese che ha milioni di emigrati, i quali, loro sì, sanno quanto importante sia sentirsi parte attiva a pieno titolo del paese dove, per scelta o necessità, vivono. A milioni di nostri espatriati è riconosciuta la doppia cittadinanza — proprio per dare a loro e ai loro figli la possibilità di averne un’altra di cittadinanza, quella del paese dove vivono, come è giusto che sia. Eppure chi vive in Italia, addirittura nascendo qui, è dichiarato un paria. Votano gli italiani che vivono all’estero da quattro generazioni e che non parlano neppure più l’italiano. Eppure chi nasce qui e parla perfettamente l’italiano e studia la nostra storia e la nostra letteratura, e paga le tasse qui, non ha voce. La ministra dell’integrazione ha ragione a dire che è una questione di buon senso e di sensibilità che i figli degli immigrati che nascono in Italia debbano essere cittadini a pieno titolo.
La Repubblica 06.05.13