L’università della vita boccia i dottori. Succede in Italia dove il pezzo di carta rimane nelle tasche di 200mila laureati fermi al palo della disoccupazione. Il record negativo è certificato dall’Istat: nel 2011 il numero di giovani a spasso con titolo di studio conseguito in un delle facoltà della Penisola è aumentato del 27%. Non stupisce quindi che nella nuova ondata migratoria, 100 mila italiani in fuga solo lo scorso anno, uno su tre possiede almeno una laurea. La crisi degli atenei, va a braccetto, in un valzer sul Titanic, con la crisi dell’economia e del lavoro. Le università italiane negli ultimi dieci anni hanno perso 58 mila studenti; con calo delle matricole pari al 17% sul totale della popolazione universitaria. Come se in un decennio — quantifica il Consiglio universitario nazionale — fosse scomparso un ateneo come la Statale di Milano. Un’emorragia che si traduce in tracollo nelle classiche Ocse in quanto a percentuali di laureati tra 30 e 34 anni: l’Italia scivola al 34esimo posto su 36 paesi, a quota 19% contro una media europea del 30%. Si riducono anche i professori, del 22% dal 2006 a oggi, i corsi di laurea (1.195 in meno in sei anni) e i dottorati (6.000 in meno rispetto agli standard europei. Come invertire la rotta? Se la demografia italiana non aiuta, se il valore del pezzo di carta incomincia ad ingiallire, i prossimi passi suggeriscono da più parti gli esperti — devono essere fatti proprio in direzione del lavoro. Il vicepresidente di Confindustria con delega all’Education Ivanohe Lo Bello, ha ribadito la necessità di «percorsi formativi all’interno della scuola che si devono incrociare con quelli delle aziende». E spiega: «Il Paese ha bisogno di un’università che crei più occupazione. Abbiamo bisogno di giovani più competitivi e in grado di innovare il sistema produttivo. L’università, in collaborazione con le imprese, deve offrire una formazione più concreta e aperta al mondo del lavoro. Come fare? Puntare sulle lauree triennali professionalizzanti; diffondere tirocini nelle facoltà tecnico-scientifiche; valorizzare i nuovi Its; utilizzare lo strumento dell’alto apprendistato che permette di svolgere il dottorato in partnership con le aziende». Intanto bisogna ridurre il gap tra lavoro e formazione. Nel 2011, infatti, il tasso di disoccupazione tra i 25 e i 29 anni raggiunge per i laureati il 16%, un livello superiore sia a quanto registrato dai diplomati nella stessa fascia d’età (12,6%) sia alla media dei 25-29enni (14,4%). Andrea Cammelli direttore di Almalaurea, invita a guardare i numeri con spirito critico. «Se si arriva alla conclusione che la laurea non serve più a nulla, affermiamo una sciocchezza che risulta pericolosa per il futuro del paese». Dati alla mano, Cammelli riconosce che l’avviamento al lavoro per i nostri neo — laureati è piuttosto problematico. Circa l’11% dei giovani a un anno dalla laurea non ha lavoro. Quota che però scende al 6% nel periodo successivo. «Nei primi anni di lavoro i coetanei non laureati hanno in media redditi più alti. È del tutto normale, perché si tratta di giovani che sono entrati molto prima nel mercato del lavoro. Nel tempo però non c’è partita. Studiare conviene». Secondo i dati di Almalaurea chi possiede un titolo di studio di un Ateneo italiano arriva a guadagnare nel corso della vita fino al 50% in più rispetto a un diplomato. L’università italiana, secondo Cammelli, deve sapere interpretare questi fenomeni, costruendo ponti con il mondo del lavoro, ma anche le aziende devono sapersi rinnovare. E dice: «La gran parte dei manager europei, 34 su cento, ha una laurea, in Germania la percentuale sale a 44. In Italia siamo appena a 15. Questo è uno spread educativo che dovrà essere colmato». Le università italiane che sfornato laureati con posto “assicurato” sono le solite note: medicina, economia e ingegneria. Sorprendono invece quelle in fondo alla classifica, chimica e geologia biologia. Se i risultati in termini di occupazione non sono buoni, a monte il mondo delle università appare ancora cristallizzato alle dinamiche del secolo scorso. La maggior parte dei laureati, il 49%, ha studiato nella propria città di appartenenza. Solo il 26% è di estrazione operaie. E appena l’8,4% ha completato gli studi lavorando. Andrea Lenzi, presidente del Cun, Consiglio universitario nazionale, «servono soldi veri e investimenti per garantire al diritto allo studio, borse di studio e college per studenti, spese senza le quali è difficile immaginare una ripresa». Il taglio di 400 milioni di euro al Fondo di finanziamento ordinario per l’anno 2013 ha indebolito le risorse delle Università, già in calo programmato del 5% annuo dal 2009. Tuttavia «ben consapevole delle ristrettezza economiche, almeno dobbiamo prendere dei provvedimenti per migliorare la qualità dello studio e dell’accesso all’università ». E spiega: «L’orientamento è uno dei pilastri dell’insegnamento. In Italia è quasi del tutto assente. Invece bisogna spiegare ai giovani delle scuole secondarie il loro futuro. E questo a partire da due argomenti: il primo è la conoscenza delle possibilità di studio, quando oggi ci si iscrive all’università spesso quasi per caso. E il secondo è dire chiaro hai ragazzi le opportunità di lavoro che una determinata facoltà offre. Il placement andrebbe scritto a fianco del nome del corso di laurea». Nel 2011 il numero dei giovani a spasso con titolo di studio conseguito in un delle facoltà della Penisola è aumentato del 27% per cento Il taglio di 400 milioni di euro al Fondo 2013 ha indebolito le risorse delle Università.
La Repubblica 06.05.13
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