Chi abbia ben chiara la specificità storica e giuridica di quegli atti normativi che sono le costituzioni e, nel contempo, si riconosca nei valori della nostra Carta fondamentale non può non essere preoccupato per l’intenzione – esplicitata dal presidente Letta nel suo discorso programmatico – di promuovere l’istituzione di una Convenzione «aperta alla partecipazione anche di autorevoli esperti non parlamentari» per la redazione di un testo di riforma di svariate norme costituzionali da presentare successivamente al Parlamento, il quale – come auspicato da tre dei quattro Saggi nominati dal presidente Napolitano – dovrebbe limitarsi ad approvarlo o respingerlo. Senza quindi la possibilità di apportarvi emendamenti.
Le preoccupazioni sono di ordine sia giuridico che politico. Le prime derivano dalla protervia con la quale le forze politiche insistono, quando si tratti di leggi di revisione costituzionale, nel metodo, contrario agli articoli 72 e 138 della Costituzione, di demandarne la redazione a Commissioni ad hoc.
La nostra Costituzione, nel caso delle revisioni costituzionali, prevede invece il normale procedimento legislativo nel quale le stesse Commissioni parlamentari hanno soltanto la funzione referente (non redigente o deliberante).
Come autorevolmente sottolineato da Valerio Onida – il più titolato dei quattro Saggi, non a caso contrario all’attribuzione alla Convenzione di poteri redigenti su così tante norme – l’istituzione di un tale organismo rischia infatti «di innescare un processo “costituente” suscettibile di travolgere l’insieme della Costituzione, che è bensì opportuno modificare in punti specifici, attraverso il procedimento di cui all’articolo 138, ma mantenendo fermi i suoi principi, la sua stabilità e il suo impianto complessivo; e si rischierebbe di favorire progetti di revisione “totale” da votare “in blocco”».
Un rischio che consegue, per l’appunto, da ciò, che la riforma modificherebbe, con una sola legge costituzionale, una pluralità di disposizioni ancorché diversissime tra loro. Per contro, come risulta ormai condiviso dai più autorevoli studiosi, l’articolo 138 della Costituzione, sistematicamente interpretato, prescrive che le leggi di revisione costituzionale debbono avere contenuto “omogeneo”. Se infatti è vero che, in materia di referendum abrogativo di leggi ordinarie, la Corte costituzionale nega che la libertà di scelta dell’elettore possa essere limitata da un quesito referendario che pretenda di abrogare una pluralità di disposizioni eterogenee, la libertà di scelta dell’elettore non può essere limitata quando gli si chiede di approvare, con un referendum confermativo, una legge di revisione costituzionale che modifichi materie disparate. Con la conseguenza che i cittadini sarebbero costretti a votare sì o no all’intero
testo ancorché siano ad esso favorevoli o contrari solo in parte.
La soluzione corretta è invece data dalla predisposizione di tanti progetti di legge costituzionale quante sono le materie incise dalla riforma, quand’anche il Parlamento ritenesse di affidare i poteri redigenti ad una Convenzione. Né si dica, in critica alla tesi qui sostenuta, che la deroga al procedimento previsto dall’art. 138 sarebbe prevista da una legge costituzionale ad hoc.
Le deroghe contenute in leggi costituzionali sono infatti ammissibili sempre che i loro effetti siano limitati nel tempo, e non proiettati nel futuro come appunto una riforma della Costituzione.
Passo adesso alle preoccupazioni d’ordine politico. Queste provengono, ancora una volta, dalla varietà delle disposizioni costituzionali che, secondo la Relazione dei quattro Saggi, potrebbero essere oggetto di modifica da parte della Convenzione: vi si accenna alle disposizioni in tema di forma di governo e di rapporti Parlamento-governo, al bicameralismo paritario, al numero dei parlamentari, al funzionamento delle Camere, ai poteri e alle funzioni delle Regioni, al federalismo fiscale, all’amministrazione della giustizia civile e penale, all’ordinamento delle magistrature e così via.
Ebbene, se la Convenzione mettesse davvero mano a tutti questi temi, e se lo spirito ispiratore delle modifiche fosse antitetico a quello che attualmente
pervade la nostra Costituzione, ne scaturirebbe una palingenesi del nostro ordinamento costituzionale. Saremmo in presenza di un vero e proprio «processo costituente » (come improvvidamente qualificato dal presidente Letta nelle sue dichiarazioni programmatiche), che coinvolgerebbe indirettamente anche la Parte prima della Costituzione, data l’interrelazione tra le due parti (i “Diritti e i doveri dei cittadini” sono infatti condizionati dall”Ordinamento della Repubblica”).
Non a caso, proprio per questa evenienza eversiva, l’onorevole Berlusconi ha manifestato il suo immediato interesse per la presidenza della Convenzione. Il fatto che l’ex premier abbia però più volte etichettato come “bolscevica” la Costituzione che ora pretenderebbe di modificare, nega però ogni legittimità a tale pretesa. La revisione costituzionale è infatti prevista, nel titolo VI della Costituzione, tra le “Garanzie costituzionali” della Costituzione insieme con la Corte costituzionale. In altre parole, il procedimento di revisione previsto dall’articolo 138 ha lo scopo di adeguare la Costituzione ai mutati tempi, non già di sovvertire i valori su cui essa si basa.
Ciò che invece avverrebbe se ci si trovasse di fronte alla manifestazione di un potere costituente.
L’autore è presidente dell’Associazione “Salviamo la Costituzione: aggiornarla non demolirla”
La Repubblica 06.05.13