attualità, cultura, pari opportunità | diritti, politica italiana

"Denunce ignorate e processi lumaca ecco perché siamo diventati il Paese dove il maschio ha licenza di uccidere", di Maria Novella De Luca

È dopo la denuncia che arriva il momento peggiore, una paura cupa che segue il coraggio. Perché l’aggressore è braccato ma la vittima è sola. E possono passare centinaia di giorni prima che la giustizia si attivi, fermando il primo, proteggendo l’altra, ed è proprio in queste settimane che spesso accade l’irreparabile. Michela Fioretti ad esempio. Da anni, invano, denunciava le violenze del suo ex marito, guardia giurata, tre settimane fa lui l’ha uccisa, con la pistola d’ordinanza, su un viadotto di Ostia, litorale di Roma. «Tutti sapevano, nessuno ha agito», hanno detto sconsolati i suoi colleghi. Perché il 15% dei “femminicidi”, (quasi un omicidio di donne ogni sei) è preceduto da denunce per stalking, un persecutore su 3 torna a colpire, ma ci vogliono almeno 6 anni di tribunale per vedere uno stupratore in carcere, e se l’aggressore è minorenne allora anche il processo si ferma, pure se si tratta di un branco, l’ha deciso la Cassazione, due anni fa, con una discutibile e discussa sentenza.
«Se avessi saputo che finiva così non li avrei mai denunciati», ha raccontato Maria, stuprata a 15 anni da otto coetanei (tutti in libertà) nella pineta di Montalto di Castro nel 2007. Tre donne su 10 per stanchezza ritirano le denunce, meno del 20% di mariti e coniugi violenti vengono allontanati dal domicilio familiare, mentre in tutta Italia esistono soltanto 127 centri antiviolenza, e di questi pochissimi (61) sono “case rifugio”, dove donne e bambini spesso in pericolo possono trovare riparo e salvezza.
C’è un triste conteggio fatto di tagli ai servizi e di giustizia che non funziona, di lentezze amministrative e di cecità burocratiche, dietro il bollettino di guerra delle aggressioni alle donne. Perché le leggi ci sono, ma poi il territorio è scoperto, la prima linea è sguarnita, come avvertono da anni le operatrici del centri antiviolenza, unici presidi sul territorio dove madri e figli costretti a nascondersi trovano pace e salvezza. Dice senza remore l’avvocato Giulia Buongiorno, ex presidente della Commissione Giustizia della Camera: «Almeno il 50% delle segnalazioni per stalking e violenza viene accolta come fosse un atto isterico da parte di una donna. Ci sono commissariati che agiscono con un’efficienza straordinaria, altri che invece sottovalutano. Un panorama a macchia di leopardo. E poi l’incertezza della pena: nella lunghezza dei processi il 40% delle donne si scoraggia o viene costretto a ritirare la propria denuncia. E spesso le condanne sono troppo miti». Impunità cioè. Fondi, risorse, politiche concrete. C’è ben poco di tutto questo nel grande coro di sdegno contro la violenza sulle donne. Spiega Anna Costanza Baldry, psicologa, responsabile di “Astra” sportello antistalking dell’associazione “Differenza donna”. «Denunciare vuol dire esporsi, far sapere a colui che perseguita che si è deciso di reagire, e questo scatena una rabbia ancora maggiore. In questa fase le donne sono sole: o riescono a nascondersi nei centri antiviolenza, oppure sono davvero a rischio, perché nell’attesa che la giustizia attivi la sua rete di protezione, potrebbe essere troppo tardi».
I centri appunto. Dove le donne arrivano di notte, di nascosto, con i figli al collo. E raccontano: «Sono scappata scalza, mentre lui dormiva», «quando mi ha tirato l’olio bollente mi sono buttata sulle scale e ho corso senza fermarmi più», «lui ha puntato il coltello alla gola di mio figlio, mi ha chiuso in casa, ho chiamato i pompieri e sono fuggita ». Ma i presidi antiviolenza sono allo stremo. Ce ne sono 127 in Italia, concentrati tra Emilia Romagna, Lazio, Toscana e Lombardia, 500 posti letto in tutto, una goccia nel mare, visto che soltanto nell’ultimo anno più trentamila donne hanno bussato alle loro porte. Ne servirebbero 5.700, a seguire le raccomandazioni della Ue, che ne ritiene necessario uno ogni 10mila abitanti. Titti Carrano, presidente di Dire, (Donne in rete contro la violenza) che rappresenta 60 centri, lancia un vero e proprio Sos: «Noi siamo l’unica risposta alla solitudine delle donne, quando decidono di ribellarsi ai loro carnefici. Eppure gran parte delle case rischia la chiusura, abbiamo pochissimi posti letto, servono finanziamenti subito, ma finora c’è stata una totale insensibilità politica. Invece i centri sono dei laboratori sociali: qui non solo le donne e i loro figli trovano rifugio, ma ricevono assistenza legale, sanitaria, recuperano se stesse, dignità e imparano a riconoscere la violenza».
Non è poco. Lo sappiamo, l’amore malato non è sempre facile da individuare, da togliere via dal cuore. Altrimenti non si spiegherebbe come mai soltanto una donna su due riesce a lasciare il proprio aguzzino. Aggiunge Titti Carrano: «Questo governo sembra voler fare qualcosa. La prima azione potrebbe essere la ratifica della Convenzione di Istanbul. Quel trattato internazionale che finalmente definisce la violenza contro le donne una violazione dei diritti umani».

La Repubblica 06.05.13